Malpractice medica  -  Redazione P&D  -  23/06/2021

Responsabilità penale del medico che somministri un trattamento sanitario contro la volontà del paziente - Trib. di Tivoli Sentenza 1179/2020 - V. Celano, O.Nardi, L. Mattei

La recente sentenza emessa dal Tribunale penale di Tivoli rappresenta, senza dubbio alcuno, una pronuncia di grande rilievo in materia di diritto all’autodeterminazione sanitaria e consenso informato, ponendosi in linea sia con la più recente giurisprudenza di legittimità che con quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 

Anche se i fatti oggetto della vicenda sono riferiti a un periodo antecedente all’entrata in vigore della legge sul biotestamento (Legge n. 219/2017), lo schema che viene proposto è del tutto sintonico con la nuova normativa. Infatti, si attribuisce rilievo al dissenso prestato dall’amministratore di sostegno nominato dal giudice in luogo del paziente incosciente rispetto a un trattamento medico. 

In particolar modo, dinanzi al rifiuto delle emotrasfusioni per motivi di coscienza religiosa (espresso sia direttamente o tramite fiduciario-amministratore di sostegno), il personale sanitario ha l’obbligazione negativa consistente nel non agere proprio in ossequio e nel rispetto delle decisioni del paziente. In caso contrario, qualora cioè il personale agisca nonostante tale dissenso, la condotta è penalmente rilevante. 

Il quadro che emerge dalla pronuncia in commento è chiaro: somministrare un trattamento sanitario contro la volontà del paziente o di chi, in caso di sua incoscienza, ha il diritto/dovere di esprimersi nell’interesse dello stesso, costituisce illecito penale ex art. 610 c.p. (violenza privata), ed espone, oltre alla condanna, anche all’obbligo di risarcire il danno. 

Il fatto: 

La vicenda risale al marzo del 2013. La sig.ra MP, Testimone di Geova e ministro di culto senza cura d’anime, veniva trasportata d’urgenza all’ospedale di Colleferro per il persistere di seri problemi respiratori e della febbre alta. 

Il 13 marzo 2013, durante il ricovero e nel pieno possesso delle proprie facoltà di intendere e volere, MP sottoscriveva le “Direttive anticipate di trattamento con contestuale nomina di amministratore di sostegno” (DAT) consegnandole al marito affinché, in caso di incoscienza, facesse rispettare la sua volontà di non ricevere trasfusioni di sangue. Infatti, in tali direttive anticipate l’interessata esprimeva il proprio rifiuto di essere sottoposta a terapie emotrasfusionali per motivi di coscienza religiosa, anche nel caso in cui gli operatori sanitari le avessero ritenute indispensabili per la sua sopravvivenza. Oltre a indicare le proprie volontà, con questo documento la sig.ra MP designava contestualmente come amministratore di sostegno (di seguito ADS) il sig. SP, suo amico e ministro di culto della confessione di appartenenza. 

Successivamente, MP veniva trasferita presso l’ospedale di Tivoli con una diagnosi di “Polmonite atipica bilaterale e relativa insufficienza respiratoria”. Al fine di permetterle di beneficiare dell'ausilio delle macchine per la respirazione e quant'altro fosse necessario per la sua stessa sopravvivenza, MP veniva posta in stato di incoscienza. Qualche giorno dopo, la paziente, sempre in stato di incoscienza, veniva sottoposta a due trasfusioni di sangue senza che i familiari ne fossero preventivamente informati. Successivamente, i sanitari comunicavano al marito (AM) che probabilmente la Sig.ra MP avrebbe dovuto subire un intervento di tracheotomia. Per questo motivo lo stesso consegnava ai sanitari le DAT sottoscritte dalla moglie contenenti le sue volontà circa il rifiuto delle emotrasfusioni.  

I medici, in quell’occasione, informavano AM di aver già somministrato due trasfusioni di sangue in quanto non consapevoli del dissenso della paziente. 

Nonostante il marito avesse fatto allegare in cartella clinica le DAT di MP, i medici effettuavano altre due emotrasfusioni, sottolineando che il documento allegato non aveva alcuna validità legale poiché l’ADS non era stato nominato dal Giudice Tutelare. I familiari depositavano allora ricorso davanti al Giudice Tutelare per la nomina dell’ADS designato nelle DAT. In data 29 marzo 2013, il Giudice emetteva provvedimento con il quale nominava l’ADS designato nel documento. 

In particolare, il provvedimento di nomina aveva cura di chiarire che “l’amministratore di sostegno avrà il potere di prestare il consenso alle cure mediche e/o chirurgiche ritenute necessarie per la salute della beneficiaria, facendo rispettare la volontà espressa dalla medesima nel documento denominato “direttive anticipate relative alle cure mediche con contestuale designazione di un amministratore di sostegno” sottoscritto in data 13 marzo 2013 che deve ritenersi parte integrante del presente provvedimento. I familiari, in pari data, facevano allegare in cartella clinica il decreto di nomina emesso dal Giudice Tutelare. 

In data 4 aprile 2013 il medico inviava comunicazione all’ADS nominato per informarlo della grave situazione clinica della paziente e gli chiedeva di prestare il consenso alle emotrasfusioni. Quest’ultimo esprimeva per iscritto in nome, per conto e nell’interesse della paziente il dissenso al trattamento emotrasfusionale. L’operatore sanitario inviava analoga comunicazione anche alla Procura della Repubblica e, nonostante non avesse ricevuto alcuna autorizzazione in merito, somministrava alla paziente 4 sacche di sangue in rapida successione. Poco dopo l’ultima somministrazione la stessa decedeva. 

A seguito del trattamento emotrasfusionale coattivo, i familiari di M.P. depositavano innanzi la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli denuncia – querela a carico del medico che aveva praticato tali trattamenti emotrasfusionali. Il procedimento portava alla pronuncia in commento che ha visto il medico condannato a due mesi di reclusione per il reato di violenza privata (ex art. 610 c.p.), oltre al pagamento delle spese processuali e alla condanna di una provvisionale a titolo di risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite. 

Diritto: 

Con la pronuncia in commento il Tribunale di Tivoli afferma la rilevanza penale della condotta del medico che somministri delle cure sanitarie nonostante il dissenso espresso del paziente, anche per il tramite di un amministratore di sostegno nominato dal giudice tutelare. Questa decisione si pone peraltro in continuità con quanto già deciso in un caso simile dal Tribunale penale di Termini Imerese (sentenza n. 465/20181, confermata di recente dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza n. 4101/2020), laddove un medico veniva condannato per la stessa fattispecie di reato, avendo ordinato la somministrazione di emotrasfusioni su una paziente Testimone di Geova nonostante il dissenso espresso da quest’ultima. Tuttavia, il caso di Tivoli si distingue in quanto il dissenso della paziente MP era manifestato ai medici non direttamente dalla stessa, ma da un suo rappresentante ad acta. 

Consenso informato - La vincolatività del dissenso: 

Il necessario punto di partenza, nell’analisi condotta dal Tribunale, è costituito dal consenso informato che costituisce presupposto fondante di ogni trattamento sanitario. Ne consegue che, tutte le volte in cui si viola l’espressa volontà della persona “costringendola” con “violenza” a subire un trattamento sanitario, viene integrata la fattispecie di cui all’art. 610 c.p. 

Per questo motivo, il giudice de quo inizia la sua analisi dal valore giuridico da attribuire al dissenso alle cure sanitarie che trova la propria ratio in princìpi di rango costituzionale quali: l’art. 2 sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo; l’art. 13 sull’inviolabilità della libertà personale; l’art. 32 comma 2 sul diritto alla salute e sul divieto di trattamenti sanitari obbligatori. 

Inoltre, nel caso di specie deve poi trovare spazio, nell’ambito dei summenzionati princìpi – che già basterebbero ad apportare adeguata tutela alla libertà di autodeterminazione di ogni soggetto – anche quello di cui all’art. 19 Cost. sulla libertà religiosa. Infatti, nel procedimento di formazione della volontà della persona offesa, il Tribunale ha attribuito particolare rilievo alla circostanza che la stessa professava la religione dei Testimoni di Geova ricoprendo il ruolo di ministro di culto e che, per ragioni basate su precetti biblici, rifiutava le emotrasfusioni. 

Tali norme fondamentali, unitamente all’evoluzione giurisprudenziale, come riconosciuto dal Tribunale, valorizzano la “libertà di autodeterminazione dell’individuo” a superamento di una sorta di “potestà curativa” del medico. 

La centralità del diritto all’autodeterminazione porta il Tribunale a sottolineare un passaggio centrale della pronuncia della Corte di Cassazione Penale SS.UU.2 n. 2437/2008 (c.d. Giulini), ossia che: “il presupposto indefettibile che giustifica il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone” con la conclusione che “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata”. 

Detta pronuncia della Suprema Corte pone al centro dell’esperienza sanitaria il paziente che, in quanto individuo cui la Costituzione riconosce diritti inviolabili, ha la legittima aspettativa di vedere tutelati i valori che caratterizzano la propria persona Per questo motivo il medico deve desistere “dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”, anche qualora l’esito possa rivelarsi infausto per lo stesso. Fra l’altro, la Corte riconosce espressamente che questa volontà possa essere anche “indirettamente” manifestata. 

Considerata la centralità del dissenso ai fini della configurazione della fattispecie di reato in esame, a questo punto il Tribunale esamina il valore da attribuire alla determinazione dell’amministratore di sostegno che esprime, in nome e per conto del beneficiario incosciente, il dissenso a uno specifico trattamento sanitario. 

È necessario premettere che se i princìpi costituzionali sopra richiamati non dovessero trovare applicazione solo perché il paziente si trova in uno stato di incoscienza, chiari sarebbero i profili di violazione dell’art. 3 Cost. Fra l’altro, la stessa Cassazione Civile con sentenza n. 23676/2008 ha fornito l’applicazione al diritto vivente: “Con ciò non si vuole, peraltro, sostenere che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede. Ma è innegabile, in tal caso, l'esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l'esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all'esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”. Rappresentante ad acta che MP aveva ed era proprio il suo amministratore di sostegno. 

Riportando testualmente le argomentazioni della nota sentenza n. 21748/2007 della Suprema Corte (caso Englaro) che individua i poteri dell’amministratore di sostegno, il Tribunale sottolinea come “nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace; quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente ... tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita di coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”. 

Anche alla luce di tale importante pronuncia, quindi, l’amministratore di sostegno, chiamato a decidere in merito a un trattamento sanitario in luogo della persona incapace, deve inferire o desumere la volontà di quest’ultima, volontà che non può prescindere dalla personalità, dallo stile di vita e dalle convinzioni della stessa anche in campo religioso. Detta opera di ricostruzione della volontà porterà l’amministratore di sostegno a decidere “con” l’incapace. Nel caso de quo la paziente aveva già manifestato la propria volontà, sia alla propria famiglia sia all’amministratore di sostegno, di non ricevere trasfusioni. Anche tali circostanze sono state tenute in debito conto dal Tribunale. 

Nel caso di specie, per di più, la volontà della paziente emergeva chiaramente dalle “Direttive anticipate di trattamento con contestuale nomina di amministratore di sostegno” del 13.03.2013 che erano parte integrante del decreto di nomina emesso dal Giudice Tutelare. Ne deriva che l’ADS nominato decideva “con” MP facendo rispettare le sue volontà chiaramente manifestate. Il giudice non manca di prendere in considerazione le DAT compilate dalla paziente a mezzo delle quali la stessa dichiarava di non voler ricevere sangue, neppure qualora vi fosse la necessità clinica di procedervi. 

Dall’analisi di tutti gli elementi sopra riportati, il Tribunale giungeva alla conclusione che: 

“...il dissenso manifestato dall’a.d.s. coincida con le volontà dell’amministrata.... Il dissenso manifestato ...deve qualificarsi non solo come espresso e inequivoco, ma anche attuale e informato. Esso ha, cioè, espresso una volontà non astrattamente ipotetica, ma concretamente accertata. Il dissenso manifestato, dunque, si intende espresso con riguardo a quello specifico trattamento sanitario sulla base di un processo di formazione della volontà basato su elementi attuali”. 

Elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie criminosa. 

Premesso che il dissenso manifestato dall’ADS in luogo della paziente incosciente è stato validamente prestato e sussistendo, conseguentemente, il presupposto indefettibile per la configurabilità del reato di violenza privata di cui all’art 610 c.p., il Tribunale si occupa poi di verificare l’esistenza tanto dell’elemento oggettivo quanto di quello soggettivo del reato. 

In particolare, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato passa per l’analisi sia della condotta, sia dell’evento, elementi questi che devono essere ben distinti e non devono risultare sovrapposti per la realizzazione della fattispecie di reato contestata. 

La condotta, per essere penalmente rilevante, deve avere come risultato la coartazione o limitazione della libertà del soggetto passivo. Come ha avuto modo di sottolineare la Corte di Cassazione, “... ai fini dell’integrazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o la minaccia realizzino la perdita, o comunque, la significativa compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo...” (Cass. pen. n. 40485/2019). 

Nel caso di MP si è verificata la compressione della libertà di autodeterminazione e infatti, come rilevato dallo stesso Tribunale, la paziente “ha subito la trasfusione senza la possibilità di evitare diversamente la costrizione”, trovandosi in stato di incoscienza indotto. 

La condotta del soggetto agente, per integrare la fattispecie di reato che ci occupa, deve inoltre essere violenta. Secondo l’orientamento pacifico degli Ermellini la “nozione di violenza è riferibile a qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare o omettere qualcosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico” (Cass. pen. n. 163/2021 – conformi Cass. pen. n. 39941/2002; Cass. pen. n. 1176/2012). Infatti, secondo pacifica giurisprudenza, la violenza può essere anche solo “impropria” ovvero quella che “si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione” (Cass. pen. n. 4284/2015). Proprio ciò che è avvenuto nel caso di specie. La violenza, infatti, si è sostanziata nell’introduzione di “sangue nel corpo della paziente tramite l’applicazione del tubo di raccordo all’ago cannula”. Facendo ciò, l’imputato ha compiuto “un atto idoneo ad incidere...sul diritto di autodeterminarsi della paziente”, non “propriamente violento”, ma “comunque idoneo a comprimere la libertà fisica e la volontà della persona offesa”. 

Considerato pertanto il bene giuridico tutelato dalla norma, la libertà di autodeterminarsi, la violenza può realizzarsi anche senza un costringimento fisico cioè in modo non “propriamente violento” e con mezzi idonei a realizzare l’evento di comprimere, coartare o a “far tollerare” una cosa contro la volontà. 

La sentenza in commento ha avuto il pregio di evidenziare che, nonostante la paziente si trovasse in uno stato di incoscienza, la somministrazione di trasfusioni di sangue è stato un atto violento perché ha inciso in maniera significativa sulla libertà fisica e psichica della paziente, con compromissione della sua identità religiosa. 

D’altronde, che la violenza possa configurarsi come impropria è pacifico e ribadito da diverse sentenze della Suprema Corte che hanno qualificato come violente le seguenti condotte: 

condotta di colui che introduca una telecamera sotto la porta di una ‘toilette pubblica’ in modo da captare immagini (in questo caso la Corte ha ritenuto presunto il dissenso delle vittime riprese a loro insaputa) - Cass. pen. n. 11522/2009;

occupare abusivamente un parcheggio riservato a uno specifico disabile (in questo caso non vi è costringimento fisico o interazione con la vittima) - Cass. pen. n. 17794/2017;

condotta di colui che, azionando a distanza il meccanismo di blocco di un cancello elettrico, impedisce alla persona offesa di uscire con la propria autovettura dalla zona garage del condominio, costringendola a scendere (non vi è costringimento fisico o interazione diretta con la vittima) dal veicolo e a staccare la corrente elettrica per neutralizzare la chiusura a distanza del cancello al fine di varcare l'accesso carraio dello stabile. - Cass. pen. n. 46786/2014.

minore sottoposto a un'attività di osservazione psicologica durante l'orario scolastico al fine di trarne elementi per formare una valutazione degli alunni sotto il profilo comportamentale 

e prendere ulteriori provvedimenti. La Cassazione ha ritenuto questa attività una invasione delle sfere personali degli alunni che, come tale, necessitava il preventivo consenso. Il mancato consenso dei genitori, informati di tale attività, è stato ritenuto dalla Corte come vero e proprio dissenso - Cass. pen. n. 40291/2017. 

Pertanto il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione della persona offesa. Nel caso in esame, la coartazione della volontà della paziente ha avuto come risultato l’annullamento della capacità di autodeterminazione della stessa manifestata per il tramite del suo amministratore di sostegno, nominato ad acta dal Giudice tutelare. La paziente ha dovuto subire/tollerare la trasfusione di sangue senza potersi determinare in modo conforme alla propria volontà. 

Quanto all’evento è interessante notare che il Tribunale ha riconosciuto la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 610 c.p. anche se MP, al momento della condotta violenta, si trovava in stato di incoscienza. Infatti, ha affermato: “la condotta dunque, inevitabilmente, non avrebbe potuto essere pretensiva di un agere ulteriore rispetto a quello del dover tollerare... Il ‘tollerare qualcosa’ si traduce, in sostanza nel ‘subire qualcosa’, che costituirebbe l’evento richiesto dalla norma”. 

La giurisprudenza successiva alla sentenza a SS.UU. Giulini, sia di legittimità che di merito, ha confermato la configurabilità del reato in esame nel caso di persone incoscienti o in posizione di minorità. Fra tutti, un caso affrontato dalla Cassazione avente ad oggetto un minore portatore di handicap (autismo) che subisce un taglio di capelli dalla sua insegnante di sostegno che abusa della sua autorità e che procede senza informare i genitori del ragazzo, in particolare la madre che aveva espresso un dissenso implicito (Cass. pen. n. 13538/2015). In questa pronuncia della Suprema Corte, riportata anche dal Tribunale di Tivoli, si ribadisce la piena applicabilità del reato di violenza privata anche a casi di questo tipo, conformemente anche alla sentenza a SS.UU. Giulini sopra richiamata, in quanto “diversamente ragionando, si dovrebbe giungere alla paradossale conclusione che, nei confronti di una persona in stato di incapacità (n.d.r. lì il bambino con handicap, qui MP incosciente), un soggetto ... (n.d.r. qui l’insegnante, nel caso di MP il medico) possa assumere iniziative ad libitum poiché l'handicappato non è in grado di esprimere una sua volontà e/o di opporsi alla volontà altrui”. 

Pertanto, nella vicenda di MP, secondo il Tribunale sono ben delineabili tutte le componenti del reato: “da un lato, la condotta costrittiva e violenta dell’immissione del sangue nel sistema cardiocircolatorio della paziente tramite l’introduzione del raccordo nell’ago cannula e, dall’altro, il tollerare la ricezione di sangue da parte di quest’ultima ... Dunque, per un lasso di tempo di due ore, MP ha ricevuto sangue contro la sua volontà mentre l’imputato restava inoperoso”. 

Fra l’altro, va anche detto che MP è stata costretta a tollerare l’irreparabile compromissione della propria identità religiosa, recentemente valorizzata dalla Cassazione in sede civile in molteplici sentenze menzionate in conclusione di questo commento. 

Descritto nei termini di cui sopra l’elemento oggettivo del reato, il Tribunale passa a verificare se lo stesso fosse imputabile al soggetto attivo, a titolo di dolo. Per la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato la norma ritiene sufficiente la sussistenza del dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di costringere taluno a fare, tollerare o omettere qualcosa. Nel caso che ci occupa, l’imputato, come correttamente concluso dal Tribunale, ha agito “nella piena rappresentazione del dissenso della paziente al trattamento e, ciò nonostante, si determinava consapevolmente nell’operare comunque l’emotrasfusione”. Il Tribunale, inoltre, afferma che “era presente nella cartella clinica della paziente la nomina di amministratore di sostegno... con esplicito conferimento del potere di assumere decisioni in relazione ai trattamenti sanitari da eseguirsi ..., conformemente alle volontà da essa manifestate nelle d.a.t., qualificate dal giudice parte integrante del provvedimento di nomina. L’imputato era a conoscenza di tale provvedimento tant’è che nel momento di prendere una decisione sul da farsi, conoscendo il credo della paziente, contattava l’a.d.s., che manifestava il dissenso all’emotrasfusione dapprima verbalmente e poi con una tempestiva comunicazione scritta (inviata su richiesta del medico stesso)”. 

Da questa ricostruzione è evidente il dolo del medico condannato. Infatti, nella cartella clinica erano allegati: 1) le DAT della paziente dalle quali si evinceva la sua volontà di non voler ricevere in nessun caso sangue intero e i suoi 4 componenti principali; 2) il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno che lo autorizzava a rifiutare le trasfusioni di sangue in nome e per conto della paziente; 3) la comunicazione scritta dell’ADS inviata al medico con la quale manifestava il dissenso espresso alle emotrasfusioni. Ne deriva che il medico sebbene fosse ben consapevole del dissenso espresso della paziente, ciononostante eseguiva coattivamente le trasfusioni di sangue. Il Tribunale ravvisava, quindi, nella condotta del medico tutti gli elementi costitutivi del reato di violenza privata, tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo. 

Insussistenza e inapplicabilità della scriminante dell’art. 54 c.p.: 

A questo punto la sentenza analizza se la condotta del medico potesse essere scriminata in virtù dello stato di necessità, ex art. 54 c.p. I profili vagliati dal Tribunale sono due: quello medico e quello giuridico. 

Sul piano strettamente medico, in base alle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, emerge che la paziente si trovava in uno stadio premortale e pertanto non vi era alcuna necessità del trattamento emotrasfusionale. 

A ogni buon conto, lo stato di necessità è prima di tutto un concetto giuridico. Invero, di fronte a un dissenso espresso della paziente, non è invocabile la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p. A tale norma, infatti, va data una lettura costituzionalmente orientata, incentrata sul valore e la dignità dell’individuo ex artt. 2, 13, 19 e 32 della Costituzione. Diversamente, si verificherebbe un’inversione dell’elementare principio di gerarchia delle fonti, in quanto una norma ordinaria verrebbe considerata gerarchicamente sovraordinata rispetto a una norma costituzionale. 

Tale lettura costituzionalmente orientata è stata adottata anche dalla giurisprudenza di merito (si veda pronuncia del Tribunale di Termini Imerese già richiamata). Tra le altre, anche lo stesso GIP di Tivoli in relazione alla vicenda in commento, con ordinanza dell’ 11 febbraio 2017 precisava che: L’art. 54 c.p., nel caso in specie non era invocabile: il sanitario a cui venga opposto un esplicito, libero e valido dissenso non deve e non può procedere al trattamento medico rifiutato: non deve, perché l’obbligo professionale e deontologico viene meno con quel rifiuto; non può farlo neanche invocando l’art. 54 c.p., perché trattasi di norma ordinaria, di rango inferiore all’art. 32 comma 2 Cost. In altri termini, l’art. 32 comma 2 Cost. rende inapplicabile l’art. 54 c.p. a tutte le ipotesi – come quella in esame – in cui il pericolo in caso di omesso trattamento sanitario ritenuto salvifico è conosciuto ed espressamente accettato da chi lo subisce”. 

Conclusioni: 

La sentenza emessa dal Tribunale di Tivoli si inserisce nel solco di pronunce della Suprema Corte vertenti sui medesimi temi e offre spunti di riflessione di non poco rilievo. In ognuna di queste pronunce, il diritto all’autodeterminazione assurge a principio cardine di ogni trattamento sanitario in quanto rinviene la propria intima giustificazione negli inviolabili princìpi di cui agli artt. 2, 3, 32 co. 2 Cost. Inoltre, l’art. 19 Costituzione fornisce una garanzia rafforzata nel caso in cui le scelte in ambito sanitario siano determinate dall’adesione del soggetto a un credo religioso, come estrinsecazione del suo diritto all’autodeterminazione in campo religioso. 

Tale elemento di specificità del rifiuto dei trattamenti emotrasfusionali manifestato dai pazienti Testimoni di Geova è stato valorizzato in numerose recenti pronunce giurisprudenziali della Cassazione che ha cristallizzato i seguenti princìpi: 

“... il Testimone di Geova ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione... sorge uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto.” (Cass. civ. n. 29469/20). 

“...la natura del diritto esercitato, cioè il rifiuto dell’emotrasfusione, ha acquistato una tale rilevanza anche nella coscienza sociale da non ammettere limitazione di sorta al suo esercizio” (Cass. civ. n. 515/2020), 

“... allorquando il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. ... Ciò assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all’espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall’art. 19 Cost.” 

(Cass. civ. n 12998/2019) 

Nel definire questi princìpi, la Cassazione si è posta in linea con l’interpretazione che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha dato alla Convenzione Europea, in special modo con riferimento agli artt. 8, 9 e 14. Sull’argomento, uno dei leading case è senz’altro la sentenza CEDU Testimoni di Geova e altri v. Russia n. 102/2002. In essa la Corte Europea ha chiaramente riconosciuto che: 

“132. ...la situazione di un paziente che intende affrettare la propria morte sospendendo le cure mediche è diversa da quella dei pazienti che - come i Testimoni di Geova - operano una scelta nell’ambito delle cure mediche pur continuando a desiderare di stare meglio e non respingono le cure mediche in toto”; 

“135... Nel campo dell’assistenza sanitaria, anche nei casi in cui il rifiuto di una particolare cura potrebbe condurre a un esito fatale, l’imposizione di un trattamento sanitario senza il consenso del paziente adulto e capace di intendere e volere interferirebbe con il diritto di quest’ultimo all’integrità fisica, e violerebbe i diritti protetti dall’Articolo 8 della Convenzione (v. Pretty, citato sopra, §§ 62 e 63, e Acmanne e altri c. Belgio, n. 10435/83, decisione della Commissione del 10 dicembre 1984)”; 

136. La libertà di accettare o rifiutare particolari cure mediche, o di scegliere cure alternative, è essenziale per i principi di autodeterminazione e autonomia dell’individuo... Già numerose autorevoli corti chiamate a esaminare casi di Testimoni di Geova che avevano rifiutato la trasfusione di sangue hanno concluso che, nonostante l’interesse pubblico a preservare la vita o l’incolumità del paziente fosse indubbiamente legittimo e molto sentito, esso è dovuto soccombere davanti all’ancor più sentito interesse del paziente a decidere il corso della propria vita. ... È stato sottolineato che la libera scelta e l’autodeterminazione sono in se stesse costituenti fondamentali della vita e che, in assenza di indicatori della necessità di salvaguardare terze parti (come nel caso di una vaccinazione obbligatoria in caso di epidemia), lo Stato deve astenersi dall’interferire con la libertà di scelta dell’individuo in campo sanitario, dato che tale ingerenza può solo diminuire, e non aumentare, il valore della vita (v. sentenze Moiette c. Shulman e Fosmire c. Nicoleau, citate sopra nei paragrafi 85 e 87)”; 

“...risulta che molti Testimoni di Geova hanno operato la scelta consapevole di rifiutare emotrasfusioni in anticipo e non pressati da un’emergenza, ciò che è dimostrato dal fatto che si erano preparati alle emergenze compilando il documento “Niente sangue” e portandolo con sé nel 

borsellino. ...Concepita per fornire direttive anticipate al medico si limitava a certificare la scelta che il paziente aveva già operato per sé stesso, e cioè di rifiutare le trasfusioni di sangue e di componenti del sangue. Non delegava il diritto di prendere qualche altra decisione in campo medico a qualcun altro, ma designava il rappresentante legale del paziente, colui che, qualora il paziente si fosse trovato in stato di incoscienza o di impossibilità di comunicare, avrebbe potuto garantire che le scelte terapeutiche del paziente fossero note al personale sanitario e fossero da esso rispettate”. 

È chiaro come la giurisprudenza di merito, quella di legittimità e quella europea abbiano dato un chiaro segnale: è di primaria importanza approntare una salvaguardia concreta dei diritti inviolabili dell’individuo, anche e soprattutto in campo medico. 

Detto quadro normativo e giurisprudenziale può dirsi oggi “positivizzato” a seguito dell’emanazione della Legge n. 219/2017, grazie alla quale è possibile manifestare anticipatamente le proprie volontà in relazione alle cure mediche tramite una DAT (Disposizione anticipata di trattamento), da considerarsi vincolante per il medico anche quando la persona dovesse trovarsi in stato di incapacità e in pericolo di vita. Infatti, il medico non dovrà indagare, volta per volta, la volontà del soggetto ma dovrà attenersi alle direttive anticipate e curare il paziente nel rispetto delle sue volontà. Tali volontà devono considerarsi sempre attuali. Alla luce di tali considerazioni è richiesto che sia i medici sia gli operatori del diritto agiscano per salvaguardare il diritto di autodeterminazione del soggetto, anche in un momento in cui lo stesso non può liberamente esprimere le proprie decisioni. In previsione di quest’ultima eventualità, inoltre, la legge stabilisce che il disponente nomini in anticipo un fiduciario che potrà agire in suo nome e per suo conto nei rapporti con i medici, come è avvenuto nel caso di MP. 

Sulla scorta dei princìpi appena richiamati può correttamente affermarsi che, qualora il personale medico dinnanzi a un rifiuto espresso di un trattamento sanitario, attualizzato direttamente o per il tramite dell’amministratore di sostegno (fiduciario), somministri comunque il trattamento contro la volontà del paziente, incorre in un duplice profilo di responsabilità: sotto il profilo penale, come nel caso di specie, la condotta del medico integra gli estremi di cui alla fattispecie prevista e punita dall’art. 610 c.p., nei termini che sono già stati ampiamente trattati sopra. Inoltre, sotto il profilo civile, il medico e la stessa struttura sanitaria possono essere chiamati in causa per il risarcimento del danno cagionato dalla lesione di diritti fondamentali all’autodeterminazione e alla libertà religiosa. Diversamente, il medico, che a fronte del rifiuto espresso decida di rispettare la decisione del paziente, sarà esente da qualsiasi profilo di responsabilità civile e penale così come sancito espressamente dalla L. 219/2017, art. 1 comma 6. 

Non si tratta di dar corso a una forma di eutanasia, ma si tratta, come già ricordava autorevolmente il Prof. Mantovani circa 30 anni fa con riferimento ai Testimoni di Geova, di riconoscere che “in base al principio personalistico ogni individuo il diritto di liberamente scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima” e pertanto “nessun potere legislativo, giudiziario, amministrativo, può imporre tale trattamento e il medico deve fermarsi...”.3 

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1 Per un commento, si rinvia a Giurisprudenza Penale, “Sulla configurabilità del reato di violenza privata nel caso di trattamento medico arbitrario” di L. Marsella e F. Papini, Altalex “Responsabilità del medico in caso di dissenso espresso dal paziente alle cure”, di L. Marsella, M. Rifici e F. Papini, laddove è disponibile anche il testo integrale della pronuncia.

2 Va dato osservare che la sentenza a SS.UU. Giulini si occupa di un caso di intervento sanitario in assenza di consenso per incapacità del paziente a prestarlo. Tuttavia, nonostante questo sia il fulcro della pronuncia, premette circa il valore centrale da attribuire al caso in cui sia sussistente un dissenso espresso.

3 F. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in “Vivere: diritto o dovere?”, a cura di Stortoni, L’editore 1992. 


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