Pubblica amministrazione  -  Gabriele Gentilini  -  22/12/2023

Illegittimità amministrativa ed illecito civile circa la prassi di attribuire a funzionari di incarichi dirigenziali in provvisoria reggenza

Consiglio di Stato  sent. 10627 del 7/12/2023

... Omissis

FATTO

1. L’organizzazione sindacale indicata in epigrafe agisce nel presente giudizio per la condanna dell’xxxxxxxx al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, da essa subiti «in conseguenza del consolidato sistema di organizzazione e gestione degli incarichi dirigenziali in favore di funzionari privi della qualifica dirigenziale, instaurato dall’Agenzia delle Entrate contra legem e contra costitutionem».

2. A fondamento della domanda risarcitoria il sindacato ricorrente deduce che l’illegittimità dell’operato dell’amministrazione è stato già accertato nel precedente contenzioso tra le medesime parti, definitosi a favore della medesima organizzazione sindacale odierna appellante in forza delle seguenti sentenze (nell’ordine cronologico): 1° agosto 2011, n. 6884 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma; 17 marzo 2015, n. 37, della Corte Costituzionale; 6 ottobre 2015, n. 4641, di questo Consiglio di Stato, sezione IV. Con specifico riguardo alle ricadute dell’illegittimità già accertata, si sottolinea che la diffusa prassi di copertura dei posti dirigenziali mediante incarichi ad personam a funzionari, e dunque senza esperire le dovute procedure selettive di carattere concorsuale, ha portato alla data del 1° gennaio 2010 ad avere 797 sulle 1143 posizioni dirigenziali in dotazione organica di dirigenti “incaricati”, e la medesima organizzazione sindacale ad impugnare vittoriosamente, con le pronunce sopra richiamate, il regolamento di amministrazione dell’xxxxxxxx nella parte in cui la censurata prassi è stata legittimata sul piano interno. La descritta illegittimità e la sua diffusività - si sostiene - avrebbero quindi svilito il ruolo di rappresentanza e tutela dei istituzionalmente affidato al sindacato all’interno dell’organizzazione amministrativa datoriale, oltre, sul piano patrimoniale, che l’ampliamento della base associativa.

3. La domanda risarcitoria i cui fatti costitutivi sono così sintetizzabili è stata in parte dichiarata inammissibile e per il resto respinta in primo grado, con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma indicata in epigrafe.

4. La dichiarazione di inammissibilità è stata resa con riguardo ai danni risarcibili considerati riferibili ai singoli lavoratori; per quelli invece ritenuti imputabili all’associazione sindacale ricorrente è stata esclusa la responsabilità dell’amministrazione resistente per carenza di colpa o della prova dei pregiudizi dedotti.

5. Contro la pronuncia di primo grado il sindacato ricorrente ha quindi proposto il presente appello, recante la domanda risarcitoria già respinta in primo grado, ed in resistenza del quale si è costituita l’xxxxxxxx.

DIRITTO

1. Con il primo motivo d’appello è censurata la dichiarazione di inammissibilità parziale del ricorso, riferita alla domanda risarcitoria per lesione dei pregiudizi di carattere esistenziale e all’immagine, e per la perdita di opportunità di progressione di carriera, subiti dalla collettività dei dipendenti dell’Agenzia a causa della condotta dell’amministrazione. In contrario a quanto statuito dalla sentenza, l’appello deduce che il sindacato ricorrente vanterebbe una legittimazione ad agire in giudizio per il ristoro per equivalente monetario dei pregiudizi in questione, quale ente esponenziale dei lavoratori, titolato ad agire in giudizio con il rimedio risarcitorio a tutela degli interessi collettivi lesi dall’illegittima condotta datoriale.

2. Viene al riguardo precisato che la legittimazione del sindacato a chiedere il risarcimento sarebbe conseguente a quella riconosciutagli nel precedente giudizio di annullamento (si richiamano sul punto le considerazioni svolte da questo Consiglio di Stato, IV sezione, nella sentenza 18 novembre 2013, n. 5451). Si aggiunge che la pronuncia di primo grado avrebbe sul punto ravvisato una differenza di presupposti legittimanti tra azione di annullamento da una parte e azione risarcitoria dall’altra, senza tuttavia specificarne sotto che profilo questi si differenzierebbero. Al medesimo riguardo la statuizione sarebbe stata resa in violazione dei principi di matrice giurisprudenziale sulla soggettivizzazione in capo agli enti collettivi degli interessi diffusi a livello di categoria dagli stessi rappresentata.

3. La stessa pronuncia avrebbe inoltre travisato il contenuto della pretesa risarcitoria fatta valere, sulla base del rilievo erroneamente attribuito al criterio di quantificazione del danno proposto in ricorso (250 euro per dipendente), e senza considerare l’indubbia dimensione collettiva del danno derivante dall’illegittima condotta datoriale, inquadrabile nel «dilagante fenomeno del mansionismo dirigenziale», fonte di pregiudizio di carattere non patrimoniale ad un interesse collettivo riferito ad una intera categoria di dipendenti dell’xxxxxxxx. Si tratterebbe più precisamente di un danno di tipo esistenziale - consistente nell’alterazione delle abitudini e degli assetti relazionali degli individui che compongono la collettività, con la loro induzione a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della loro personalità nell’organizzazione della pubblica amministrazione della quale fanno parte - per il quale era stato proposto un criterio di liquidazione di tipo equitativo fondato sul maggiore esborso stimato per effetto degli illegittimi e diffusi incarichi dirigenziali, suddiviso per tutti i dipendenti dell’ente.

4. Al descritto pregiudizio si aggiungerebbe il danno all’immagine, derivante dall’ampia risonanza mediatica dell’interna vicenda (clamor fori), e dalle conseguenti ricadute negative presso l’opinione pubblica sulla dignità professionale e la fiducia nell’operato dei dipendenti dell’xxxxxxxx. A questo specifico riguardo viene richiamata la giurisprudenza contabile formatasi in materia ed in particolare il criterio di liquidazione del danno enunciato dall’art. 1, comma 1-sexies, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), secondo cui «nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente». In alternativa viene proposto come base per la quantificazione del danno la retribuzione e i compensi a vario titolo corrisposti in favore di coloro che, ai vertici dell’xxxxxxxx, sarebbero da considerare responsabili per aver concorso con i loro atti e provvedimenti ad instaurare e consolidare il contestato sistema di affidamento degli incarichi dirigenziali contra legem e contra costitutionem. In subordine viene chiesta sul punto la condanna dell’amministrazione resistente sulla base dei criteri da indicare ai sensi dell’art. 34, comma 4, cod. proc. amm.

5. Con il secondo motivo d’appello viene censurata la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento dei danni propri dell’associazione sindacale ricorrente, in relazione al quale si deduce che la sentenza avrebbe ancora una volta indebitamente sovrapposto gli aspetti concernenti i criteri di quantificazione del danno con i fatti costitutivi della domanda. Il danno risarcibile prospettato consisterebbe quindi nella mancata iscrizione all’associazione sindacale ricorrente di dipendenti dell’xxxxxxxx, erroneamente ricondotta dalla sentenza ad un pregiudizio di carattere patrimoniale, considerato sfornito di prova in giudizio, e che invece era stato indicato come criterio di commisurazione del pregiudizio di natura non patrimoniale all’identità e all’attività dell’organizzazione collettiva posta a tutela dei diritti dei lavoratori, derivante dalla condotta datoriale. Viene precisato che il danno in questione sarebbe quindi configurabile nella condizione psicologica di frustrazione dei vertici, insorta in seguito alla constatazione della reiterata volontà dell’amministrazione di non conformarsi alla Costituzione, al punto da dare luogo ad un pluriennale contenzioso risalente al 2004. Nella prospettiva così delineata, l’organizzazione si sarebbe quindi trovata impossibilitata a contrastare diversamente le scelte organizzative e gestionali compiute dall’xxxxxxxx e di collocarle nella fisiologica dinamica delle relazioni sindacali.

6. A questo specifico riguardo si sottolinea che sin dal momento della sua istituzione quest’ultima anziché bandire selezioni pubbliche trasparenti ed imparziali ha coperto le posizioni dirigenziali vacanti con incarichi dirigenziali in favore di funzionari privi della qualifica dirigenziale. A fronte dell’illegittima imposizione di un modello di sviluppo delle carriere fondato sul «mansionismo dirigenziale», elusivo della via costituzionalmente elettiva di meccanismi di progressione di carriera di carattere concorsuale, e della correlativa negazione del ruolo delle organizzazioni rappresentative dei lavoratori, il criterio equitativo di liquidazione del danno è stato quindi indicato sulla base del lungo tempo trascorso tra l’inizio della stagione conflittuale, ovvero dal 2004, sino al 2015, anno in cui l’operato complessivo dell’xxxxxxxx è stato definitivamente accertato come illegittimo in sede di giustizia costituzionale, nella misura di € 100 al giorno, per un totale di € 365.000,00.

7. In questa prospettiva sono inoltre prospettati «riflessi patrimoniali» del danno non patrimoniale, sotto il profilo dell’«andamento negativo delle iscrizioni all’organizzazione sindacale, provocato, come detto, dal timore ingenerato in tanti funzionari e dirigenti di vedersi in qualche modo discriminati nell’attribuzione di incarichi di qualunque natura». Contrariamente a quanto sul punto statuito dalla sentenza, si sostiene che la prova del danno sarebbe ricavabile in via presuntiva, sulla base del ragionamento secondo cui i 767 funzionari destinatari di incarichi dirigenziali accertati alla data del 1° gennaio 2010, sulle 1043 posizioni complessive, non si sarebbero iscritti all’organizzazione sindacale ricorrente, avente maggiore consistenza probabilistica dell’ipotesi opposta. Il danno subito viene quindi calcolato ponendo come base di computo la quota di iscrizione annuale media, pari a circa € 130,00, che i 767 funzionari in questione avrebbero versato per il decennio considerato (dal 2004 al 2014, ancora una volta senza considerare i primi tre mesi del 2015). Il danno dei predetti riflessi patrimoniali del danno (non patrimoniale) risarcibile sarebbe pertanto quantificabile nella somma di € 997.100,00.

8. In ogni caso - si aggiunge - la sentenza avrebbe erroneamente trascurato il nucleo del pregiudizio di carattere non patrimoniale subito, riferito alla «personalità ed identità associativa, per le gravose difficoltà incontrate nell’affermazione delle sue finalità statutarie» a causa della condotta di controparte, per il quale si è prospettato il criterio di liquidazione del danno fondato sul fattore temporale.

9. Con il terzo motivo d’appello viene censurata la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria per la voce consistente nel «senso di frustrazione derivante della perpetrazione del comportamento illegittimo dell’xxxxxxxx, tale da aver richiesto l’attivazione di un corposo contenzioso a partire dal 2004». In contrario viene sottolineato che la prova del danno in questione può essere di tipo presuntivo, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, e che nel caso essa è inferibile secondo un criterio di normalità tratto da massime di esperienza da cui si desumerebbe la sofferenza morale dei vertici sindacali per il senso di impotenza incusso dal più volte descritto comportamento della controparte datoriale.

10. La pronuncia di primo grado avrebbe inoltre errato sul medesimo punto nell’escludere la colpa per il periodo precedente all’annullamento della disposizione regolamentare che consentiva l’affidamento di incarichi dirigenziali (24, comma 2, del regolamento di amministrazione), ad opera della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio del 1° agosto 2011, n. 6884, sopra citata, per cui «l’ulteriore contenzioso da essa attivato tra il 2004 e il 2012 non è stato definito con sentenze di merito, così che in assenza di accertamenti in ordine alla illegittimità della norma regolamentare gravata e di ulteriori attività civilistiche volte a denunciare una condotta antisindacale dell’ente datoriale, il mero dato storico della proposizione dei ricorsi deve ascriversi alla ordinaria dinamica sindacale». L’appello deduce che per un verso la circostanza sarebbe irrilevante, dal momento che i ricorsi di cui al parallelo contenzioso non si sono conclusi con una sentenza di merito, poiché, relativi a delibere che sostituivano l’inciso finale della citata disposizione regolamentare, in relazione ai quali non residuava alcuni interesse in seguito alla richiamata sentenza del 2011 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio. Per altro verso sottolinea che con la sentenza del 17 marzo 2015, n. 37, della Corte costituzionale «proprio quelle ripetute “proroghe” avevano determinato il consolidarsi di un sistema contra legem e contra constitutionem, per cui non era più necessario alcun ulteriore accertamento di merito circa l’illegittimità degli atti posti in essere dall’xxxxxxxx».

11. Le censure così sintetizzate sono in parte fondate, nei limiti e nei termini che seguono.

12. Con riguardo al primo motivo, con cui è riproposta la domanda risarcitoria per i pregiudizi di carattere esistenziale e per la perdita di opportunità di progressione di carriera dei dipendenti dell’amministrazione, va confermata la dichiarazione di inammissibilità resa dalla sentenza appellata. Come da questa statuito, i danni così prospettati sono riferibili in via esclusiva ai dipendenti medesimi, e non già alla sfera degli interessi collettivi in cui si colloca l’attività dell’organizzazione sindacale. L’opposta tesi da questa sostenuta si risolve in una duplicazione di interessi, che in ipotesi avrebbero potuto essere individualmente azionati dal singolo dipendente in proprio, contro gli stessi atti impugnati nei precedenti contenziosi promossi invece dal sindacato ricorrente in questo giudizio. Non è pertanto contestabile la dimensione esclusivamente individuale degli interessi alla progressione della carriera, soggettivamente imputabili al singolo dipendente, che in forza del divieto di sostituzione processuale di cui all’art. 81 cod. proc. civ. osta a che la relativa tutela in sede giurisdizionale sia invece demandata all’organizzazione sindacale.

13. Per quanto riguarda le restanti censure, la sentenza di primo grado va del pari confermata nella parte in cui ha escluso che nella presente vicenda contenziosa siano ravvisabili pregiudizi di carattere patrimoniale propri dell’associazione sindacale ricorrente a causa dell’illegittima condotta datoriale da questa censurata. Difetta sul punto la prova che per effetto della medesima condotta l’organizzazione sindacale ricorrente abbia subito una riduzione di iscritti o una mancata adesione di potenziali interessati. Sul punto sono state infatti fornite solo generiche deduzioni, non supportate da dati specifici, che pure sarebbe stato possibile allegare e documentare.

14. Sono per contro fondate le censure nella parte in cui questa ha respinto la domanda di risarcimento dei pregiudizi di carattere non patrimoniale dell’associazione sindacale, riferibili alla sua sfera soggettiva, e nello specifico al suo ruolo, alla sua immagine presso la base lavorativa e alla sua attività di tutela degli interessi collettivi di questa. Per questa parte ricorrono tutti gli elementi di costitutivi della responsabilità da illecito ex art. 2043 cod. civ. dell’amministrazione pubblica, nell’esercizio della sua attività istituzionale.

15. In primo luogo ricorre l’elemento oggettivo dato dall’illegittimità di atti, provvedimenti e comportamenti riferibili al pubblico potere, in conformità al paradigma della responsabilità per l’illegittimo esercizio delle funzioni amministrative, enunciato in punto di giurisdizione dall’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo. Come si deduce a fondamento della domanda, l’elemento oggettivo in questione è stato accertato con effetto di giudicato nel precedente contenzioso, sul cui esito si fonda la presente domanda risarcitoria.

Tale elemento è costituito dalla più volte accertata e prolungata prassi adottata dalla Agenzia delle entrate consistente nel conferimento a funzionari di incarichi dirigenziali, asseritamente in provvisoria reggenza, a copertura di posizioni dirigenziali vacanti in violazione del principio costituzionale dell’accesso alla dirigenza pubblica mediante concorso.

Parimenti in violazione di tale principio è risultato essere l'art. 24, co. 2, del regolamento di amministrazione della Agenzia, nel testo risultante dalla delibera del Comitato di gestione n. 55 del 22 dicembre 2009, che ha stabilito che «per inderogabili esigenze di funzionamento dell’Agenzia, le eventuali vacanze sopravvenute possono essere provvisoriamente coperte, previo interpello e salva l'urgenza, con le stesse modalità di cui al comma 1 [cioè mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l'attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti] fino all’attuazione delle procedure di accesso alla dirigenza e comunque fino al 31 dicembre 2010».

16. Contrariamente a quanto statuito dalla sentenza di primo grado e a quanto sostiene l’amministrazione resistente, ricorre inoltre l’elemento soggettivo della colpa.

Non costituisce circostanza esimente sul punto il fatto che gli incarichi dirigenziali siano stati assegnati dapprima in conformità alla regolamentazione interna all’Agenzia delle entrate (24, comma 2, del regolamento di amministrazione, sopra citato), e poi in base alla legge (art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, recante Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento; convertito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44).

17. La colpa dell’xxxxxxxx è ravvisabile proprio nell’adozione di una disciplina regolamentare in contrasto con il principio costituzionale del pubblico concorso (art. 97, comma 4, Cost.). La natura di atto generale del regolamento di amministrazione non esime infatti l’ente che lo ha adottato dall’addebito di responsabilità per illegittima attività provvedimentale. Ad essa è pacificamente riconducibile anche l’attività normativa di organizzazione interna dell’amministrazione - prerogativa afferente alla sua posizione di supremazia rispetto ai soggetti posti alle sue dipendenze - riconducibile dunque all’esercizio di pubblici poteri ad essa attribuiti dalla legge e che a questa si deve conformare.

18. Quindi, la presunzione di colpa ricavabile dall’accertamento di illegittimità svolto nel precedente contenzioso promosso dall’associazione sindacale odierna appellante, fondato sulla violazione del principio costituzionale del pubblico concorso, non è stata vinta in questo giudizio dall’amministrazione resistente, attraverso l’allegazione di circostanze riconducibili all’ipotesi dell’errore scusabile, che per giurisprudenza amministrativa costante integra la prova liberatoria dall’addebito di responsabilità (ed in relazione alla quale si rinvia, tra le altre, ai seguenti precedenti: Cons. Stato, II, 12 gennaio 2022, n. 226; 14 ottobre 2021, n. 6915; 30 giugno 2021, n. 4948; III, 26 aprile 2022, n. 3166; IV, 5 maggio 2020, n. 2848; 2 marzo 2020, n. 1482; 18 ottobre 2019, nn. 7082 - 7086; V, 27 novembre 2019, n. 8109; VI, 30 novembre 2021, n. 7972; 2 aprile 2021, n. 2734).

19. Come in precedenza esposto, l’operato dell’amministrazione è innanzitutto rimproverabile nell’adozione ed applicazione costante ed indiscriminata di un regolamento interno contrastante con la Costituzione. Nessuna efficacia esimente può per contro rivestire la “legificazione” della regola interna ad opera del sopra citato 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, che nell’autorizzare le xxxxxxxx «ad espletare procedure concorsuali da completare entro il 31 dicembre 2013 per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti» - tali divenute in conseguenza dell’annullamento in sede giurisdizionale della più volte richiamata regolamentazione interna, con la citata sentenza 1° agosto 2011, n. 6884, del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - ha facoltizzato le stesse agenzie fiscali ad «attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso». La norma, dichiarata peraltro incostituzionale (Corte cost., sentenza 17 marzo 2015, n. 37, sopra menzionata), aveva comunque una funzione di porre transitoriamente rimedio ad una situazione di carente copertura dei posti dirigenziali venutasi a creare proprio per effetto dell’illegittima regolamentazione interna alle agenzie fiscali ed indiscriminata applicazione della stessa, quale accertata - in allora solo in primo grado - dalla sentenza del Tar sopra richiamata. Nella descritta prospettiva, l’intervento legislativo non può dunque inficiare il giudizio soggettivo di colpa che rimonta alla condotta che ne ha costituito l’origine sul piano causale.

20. La colpa dell’amministrazione appellata è ancor più evidente se si valuta la sua condotta complessiva nel corso degli anni.

L’art. 97, comma 4, della Costituzione impone a tutte le amministrazioni l’accesso al pubblico impiego mediante concorso e tale principio si applica anche alla dirigenza pubblica, in quanto per pacifica giurisprudenza costituzionale il passaggio a una fascia funzionale superiore comporta l'accesso a un nuovo posto di lavoro integrando una forma di reclutamento soggetta alla regola del pubblico concorso e il concorso è necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio (cfr., ex plurimis, Corte cost., n. 194/2002; n. 293/2009; n. 150/2010: n. 7/2011; n. 217/2012). In base alla stessa citata norma costituzionale le eccezioni alla regola del pubblico concorso possono essere stabilite solo dalla legge nei limiti delineati dalla citata giurisprudenza costituzionale.

L’art. 19, comma 6, del c.d. testo unico del pubblico impiego (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) prevede entro tassativi limiti quantitativi la possibilità per le pubbliche amministrazioni di conferire incarichi dirigenziali a soggetti esterni privi della qualifica dirigenziale, subordinando tale facoltà a limiti ben precisi, tra cui la particolare e comprovata qualificazione professionale dei soggetti individuati non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione. Ciò presuppone la temporaneità dell’incarico e per converso la illegittimità delle prassi di continui rinnovi dei suddetti incarichi, elusive degli obblighi dell’amministrazione, strumentali al principio del pubblico concorso, di svolgere una ricognizione delle proprie esigenze assunzionali e programmare i concorsi in modo da reperire nel modo corretto quelle professionalità di cui è priva ed assorbire nel minor tempo possibile le scoperture di organico.

21. L’xxxxxxxx nulla ha fatto di tutto questo.

Non solo ha adottato un regolamento in contrasto con tali principi già da tempo consolidati alla data di approvazione del regolamento stesso, ma in continuazione con la colpevole illegittimità originaria è andata anche oltre, con la reiterazione dell’affidamento di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, così da stabilizzarne la preposizione al vertice degli uffici e da contraddire la provvisorietà del descritto sistema, prevista nello stesso regolamento. Particolarmente significativo in questo senso è il dato, non smentito dalla amministrazione appellata, di 767 funzionari destinatari di incarichi dirigenziali accertati alla data del 1° gennaio 2010 sulle 1043 posizioni complessive. Come accertato dal Tar del Lazio con la richiamata sentenza n. 6884/2011, confermata da questo Consiglio Stato, IV n. 4641/2015, una deroga così ampia sul piano quantitativo e temporale al principio del reclutamento del personale dirigenziale mediante il sistema concorsuale per la copertura delle posizioni dirigenziali è quindi valsa ad introdurre e consolidare nel tempo una situazione complessiva di grave violazione di principi fondamentali di regolamentazione del rapporto di pubblico impiego e delle garanzie relative all’accesso alle qualifiche, alla selezione del personale e allo svolgimento del rapporto. Nella sostanza, una prassi di prolungata e così ampia reiterazione di conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti privi di tale qualifica significa introdurre un nuovo canale di accesso alla dirigenza pubblica, non previsto dal legislatore e in palese contrasto con i principi costituzionali sopra richiamati.

22. La descritta condotta si è rivelata idonea a ledere l’organizzazione sindacale ricorrente in questo giudizio e dunque a procurarle un danno ingiusto. La lesione meritevole di ristoro per equivalente monetario è nel caso di specie riferibile al ruolo del sindacato e alla sua attività di tutela degli interessi dei lavoratori. Sul punto non è revocabile in dubbio che il consolidato sistema di assegnazione degli incarichi dirigenziali invalso all’interno dell’xxxxxxxx – il c.d. «mansionismo dirigenziale» - contraddistinto dalla sistematica disapplicazione della regola costituzionale del pubblico concorso, riveste attitudine in concreto a svilire la funzione rappresentativa dell’organizzazione dei lavoratori. Ciò nella misura in cui una situazione diffusa di contrarietà alla norma giuridica fondamentale in materia di progressione di carriera, con correlativa frustrazione delle aspirazioni diffuse presso i lavoratori dipendenti ad una progressione di carriera secondo criteri di predefiniti, obiettivi e di impostazione meritocratica, si pone quale fattore di svuotamento del ruolo del sindacato di ente esponenziale delle aspettative dei lavoratori.

23. In relazione a quanto esposto in sede di esame del primo motivo d’appello, va sul punto precisato che l’istituzionalizzazione di una prassi contraria alla Costituzione, attraverso norme interne con essa contrastati, si traduce infatti in una condotta plurioffensiva, idonea a ledere non solo l’aspirazione del singolo lavoratore, titolato quindi ad agire in proprio, come in precedenza esposto, ma il ruolo stesso del sindacato quale ente esponenziale della relativa collettività, perché posto nella condizione di non potere assicurare il rispetto dei poc’anzi menzionati meccanismi di progressione interna di carriera di stampo concorsuale, atti a porre la base lavorativa in condizioni di parità. Come la condotta in questione ha dato luogo al giudizio di annullamento degli atti di assegnazione degli incarichi dirigenziali senza concorso, in cui è stata riconosciuta la legittimazione attiva dell’organizzazione sindacale odierna appellante, così questa è pertanto titolata a vantare una lesione causalmente correlabile alla condotta datoriale accertata come illegittima nel precedente contenzioso, e riferibile in via esclusiva alla sfera dell’ente collettivo.

24. La lesione è pertanto qualificabile antigiuridica perché incidente sull’interesse costituzionalmente protetto all’attività sindacale (art. 39 Cost.). Sotto il profilo ora evidenziato esso è dunque fonte di responsabilità per i danni di carattere non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte: Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972).

25. In conformità a quest’ultima, per la liquidazione del danno deve seguirsi un criterio di carattere equitativo ex artt. 1226 e 2056 cod. civ., che nel caso di specie, in assenza di elementi concreti sulla rappresentatività del sindacato ricorrente, cui nondimeno si contrappone l’assenza di contestazione da parte dell’xxxxxxxx sulla sua presenza all’interno dell’ente, si ritiene congrua la somma, a valori attualizzati dall’epoca in cui la lesione si è consumata, risalente al concorso finalmente indetto nel 2014 dall’amministrazione, di € 30.000,00. Sul capitale così liquidato vanno aggiunti gli interessi compensativi al saggio legale via via vigente sul capitale annualmente devalutato in base dell’indice ISTAT FOI (famiglie di operai e impiegati) fino alla data di indizione del menzionato concorso. La scadenza del computo degli interessi legali è fissata dal pagamento effettivo delle somme dovute.

26. L’appello deve pertanto essere accolto in parte. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado va accolta la domanda risarcitoria nei termini sopra esposti. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate per la metà, in ragione della parziale soccombenza dell’organizzazione sindacale ricorrente, e mentre per la restante metà, liquidata in dispositivo, seguono il criterio di legge della soccombenza (art. 91, comma 1, cod. proc. civ.).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, accoglie in parte la domanda risarcitoria e condanna l’xxxxxxxx al pagamento, in favore del sindacato ricorrente e a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 30.000, oltre agli interessi legali, come indicato in sentenza.

Condanna l’xxxxxxxx a rifondere a xxxxxxxx le spese del doppio grado di giudizio nei limiti della metà, liquidata in € 5.000,00, oltre agli accessori di legge; compensa le spese tra le parti per la restante metà.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 novembre 2023 con l’intervento dei magistrati:

....... Omissis




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