Il 13 maggio al Senato è stata presentata la relazione della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere sulla “Vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”.
L’esigenza della Commissione parlamentare d’inchiesta nasce prima di tutto da ciò che la convenzione di Istanbul impone negli articoli 15 e 18.
Articolo 15 – Formazione delle figure professionali
1 Le Parti forniscono o rafforzano un'adeguata formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria.
Articolo 18 – Obblighi generali
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3 Le Parti si accertano che le misure adottate in virtù del presente capitolo:
– siano basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima;
– siano basate su un approccio integrato che prenda in considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e il loro più ampio contesto sociale;
– mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria;
– mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze;
– consentano, se del caso, di disporre negli stessi locali di una serie di servizi di protezione e di supporto;
– soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili.
Su questa stessa scia della Convenzione si è pronunciata anche la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, recepita dall’Italia con il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, che riporta ampiamente questo rischio nella premessa (n. 17), con il conseguente dovere di tutela delle vittime di violenza di genere, come anche sottolineato dalla sentenza di cassazione a Sezioni Unite (SENTENZA 16 marzo 2016, n.10959):
“La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. 'reati d’onore'. Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria e intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza”
Ancora il tema della vittimizzazione secondaria è ripreso dal consiglio d'Europa (Recommendation Rec(2006)8 of the Committee of Ministers to member states on assistance to crime victims), specificando anche cosa si intende per vittima:
“1.1. Per vittima si intende una persona fisica che ha subito danni, tra cui lesioni fisiche o mentali, sofferenze emotive o perdite economiche, causati da atti o omissioni che violano il diritto penale di uno Stato membro. Il termine vittima comprende anche, se del caso, la famiglia o le persone a carico immediate della vittima diretta.
1.2. Per vittimizzazione ripetuta si intende una situazione in cui la stessa persona soffre di più di un incidente criminale per un determinato periodo di tempo.
1.3. Vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”.
In sintesi la vittimizzazione secondaria, colpisce le donne oggetto di violenza soprattutto in ambito familiare e nelle relazioni affettive. La vittimizzazione secondaria, diversamente dalla vittimizzazione ripetuta da attribuire allo stesso autore, è quindi opera delle istituzioni, con cui la vittima viene in contatto, che non agiscono secondo le direttive internazionali e nazionali nel solco di garantire comportamenti rispettosi e tutelanti, che non ledano la dignità personale e la sicurezza.
In aggiunta le istituzioni (in generale e nello specifico i servizi sociali, sanitari e giudiziari) sono di frequente ancora intrisi di pregiudizi e rivolgono alle donne scarsa attenzione, con tendenza a colpevolizzarle (victim blaming).
L’inchiesta parlamentare ha inteso guardare a questo fenomeno della vittimizzazione secondaria nell’ambito dei procedimenti dei tribunali civili e minorili, andando a monitorare in particolare il rispetto di due articoli della convenzione di Istanbul, gli stessi articoli messi al centro del rapporto del GREVIO (Organo di monitoraggio dell’attuazione della Convenzione) sull’Italia (GREVIO’s -Baseline- Evaluation Report, Italy, 2019).
Gli articoli suddetti sono i seguenti:
Articolo 26 – Protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza
Articolo 31 Custodia dei figli
Il GREVIO in particolare, nel paragrafo 185, si diffonde sulle distorsioni dei procedimenti civili là dove non sia riconosciuta la violenza ed i diritti delle vittime: “il GREVIO nota con estrema preoccupazione la diffusa prassi dei tribunali civili di considerare una donna che solleva la problematica della violenza domestica come un motivo per non partecipare agli incontri e opporsi all'affidamento o alle visite, come un genitore ‘non collaborativo’ e quindi una ‘madre inadatta’ che merita di essere sanzionata…. Il GREVIO sottolinea come sia necessario che i tribunali civili indaghino su tutte le denunce di violenza e abuso, assieme ai tribunali penali qualora vi siano procedimenti penali in corso contro il padre del bambino della vittima, o cercando attivamente informazioni da altre fonti, come le forze dell’ordine, le autorità locali, i servizi sanitari, educativi e di supporto specializzato per le donne”.
L’inchiesta che la Commissione ha svolto si è fondata su questi presupposti, oltre che sulle denunce pervenute dalle madri oggetto di vittimizzazione secondaria da parte dei tribunali civili e minorili.
L’inchiesta ha avuto un impianto complesso che possiamo fotografare in 3 step:
(https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf).
Tra i dati emersi solo il 22% dei magistrati ha delle competenze specifiche nella materia della violenza contro le donne, mentre la maggioranza dei consulenti tecnici nominati non risulta avere competenze specifiche.
Dalle conclusioni del rapporto si legge: “L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno. Ciò comporta - da parte di tutto il sistema - una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene "letta" correttamente. Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro "sistema Paese" sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza”.
Queste due ultime indagini sono state ambedue oggetto della medesima relazione presentata il 13 maggio 2022 al Senato a Roma consultabile al seguente indirizzo insieme alla diretta dell’evento di presentazione: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1349605.pdf
https://webtv.senato.it/webtv_evento?video_evento=240595 .
Elemento centrale delle due indagini, quantitativa e qualitativa, è il non riconoscimento della violenza, ed il suo accantonamento quando si prendono le prime decisioni che riguardano l’affido; nel 34% del casi individuati dal campione statistico, come casi con allegazioni di violenza, è stato stabilito nelle prime battute - sia nei tribunali civili che minorili - l’affido condiviso in ossequio al principio di una bigenitorialità assoluta e non valutata caso per caso in rapporto ai pregiudizi che essa può creare ai minori come stabilito da tutte le leggi (L. 54/2006; L. 219/2012; D.lgs 154/2013) e dalle convenzioni sui diritti del minore (New York, Strasburgo).
Da un ingiusto affido condiviso in presenza di violenza domestica, contrario ai principi della Convenzione di Istanbul, discende l’acuirsi della violenza, che non si ferma con la separazione ma prosegue anche dopo, attraverso i figli. Le donne continuano ad essere vessate e controllate dai partner e perseguitate in via giudiziaria con una serie di azioni che le incolpano di ostruzionismo e di ‘non far vedere i figli ai padri’, là dove abbiamo figli impauriti sia dalle vicende pregresse di maltrattamento cui hanno assistito sia dal piglio autoritario di questi padri che pretendono di vedere i figli forzandone la volontà e ricattandoli in ogni modo. Dall’escalation di ricorsi contrapposti il giudice alza le mani e si rifugia nella nomina di un consulente tecnico, avendo mancato l’appuntamento con una istruttoria iniziale che poteva mettere al centro del procedimento la violenza domestica e di genere. La riforma Cartabia, (legge 26 novembre 2021, n. 206, di delega al Consiglio dei Ministri per una generale riforma del processo civile) aperta anche al contributo della Commissione, mette l’accento su questa attività iniziale che deve da subito essere intrapresa per indirizzare le situazioni di violenza in un canale corretto che non porti le donne verso un epilogo di vittimizzazione secondaria e violenza istituzionale.
Il filo nero che unisce queste vicende, sia come emergono dalle carte processuali del campione statistico e sia dai casi emblematici, è costituito dalla soccombenza delle madri che denunciano la violenza, penalizzate a vari livelli dalle istituzioni giudiziarie.
Le donne sono vittimizzate dalle istituzioni prima nell’affido condiviso, poi nella limitazione di diritti genitoriali, con vari interventi di curatori, affido ai servizi ecc. e poi anche con cambi di collocamento direzionato verso il padre violento. Le madri sono considerate inadeguate sia verso il minore che nella relazione con l’altro genitore circa nel 30% dei casi del campione dei TM ( parliamo qui dei casi esaminati in cui si sono riscontrate allegazioni di violenza); poi ci sono le madri che si vedono separare dai figli, con un cambio di collocamento nel 5% dei casi del campione dei TO , o con il collocamento presso terzi o strutture che pesa circa nel 2% dei casi del campione dei TM e poco meno in quello del TO (1,6%). Aggiungiamo anche un altro dato di un collocamento presso il padre (sempre in presenza di violenza domestica ma con affido condiviso che pesa nel 4,9% dei casi del tribunale ordinario. La decisione dei tribunali ordinari di collocare il minore presso il padre con affido condiviso nei casi di violenza domestica è ugualmente fortemente penalizzante per le vittime, infatti dai casi emblematici emerge che anche questi casi possono essere soggetti a prelievi forzosi, ovvero a prelievi eseguiti contro la volontà della madre e del minore.
La soccombenza delle madri passa anche attraverso le consulenze tecniche, che nel campione statistico dei tribunali civili si ritrovano nel 18% dei casi (con allegazioni di violenza) e nella quasi totalità dei casi emblematici (solo in due di questi casi il tribunale si rivolge ai servizi sociali e in un caso anche al consultorio).
Le consulenze tecniche, come le indagini demandate ai servizi sociali (richieste in larga maggioranza dai TM), non tengono conto della violenza né del maltrattamento assistito. In ambedue i contesti la centralità della valutazione sulla competenza genitoriale ruota intorno al principio della bigenitorialità ed al criterio, da esso derivato, del cosiddetto ‘accesso’, ovvero della disponibilità di un genitore a favorire l’accesso dell’altro genitore al minore. Questa criterio definito an che della genitorialità ‘friendly’ o amichevole non è assolutamente proponibile in caso di violenza e maltrattamenti sulla donna ad opera di un partner. In ambedue i contesti, i giudizi negativi sulla genitorialità che colpiscono le madri sono derivati da un glossario ascientifico e intriso di pregiudizi misogini, come: madre simbiotica, malevola, alienante, ostruzionista, non collaborativa, ecc.
Le consulenze tecniche oggi cercano di non utilizzate in modo esplicito il costrutto della PAS (parental alienation syndrome) dichiarato ascientifico da tutti gli organismi competenti a livello nazionale e internazionale; ma giungono sempre ad una valutazione di inadeguatezza genitoriale materna a partire dalla non adesione al principio di bigenitorialità che dovrebbe al contrario essere espunto dai procedimenti che riguardano gli affidi quando emerge la violenza domestica. In questo contesto è assolutamente primario l’interesse del minore (il famoso best interest) a vivere con il genitore non violento, con la madre, la vittima in sintesi, coadiuvata se necessario - e se richiesto dalla donna - anche da servizi di supporto allo scopo di fornire una tutela congiunta madre-minore. Al contrario le valutazioni dei consulenti, ratificate dai giudici, portano su un’altra strada: l’allontanamento del bambino dalla madre vittima e tutelante il minore dalla violenza paterna e la sua consegna al padre violento.
Dalla relazione: “Nei provvedimenti giudiziari esaminati le relazioni dei consulenti sono ampiamente utilizzate nelle motivazioni a sostegno delle decisioni di allontanare i bambini dalla madre, vuoi in struttura protetta (intermedia), vuoi direttamente presso il padre. La ragione fondamentale dell’allontanamento è individuata nel rischio che i minori correrebbero nell’attualità e nel futuro, derivante dalla non frequentazione abituale dei padri, considerati come figura centrale nello sviluppo dei minori. Spesso la teorica centralità della figura paterna nello sviluppo del minore prescinde purtroppo da una seria valutazione sull’impatto delle violenze denunciate dalla donna.
La decisione del giudice rischia quindi di configurarsi come mera adesione all’indicazione del percorso trattamentale rappresentato dalle consulenze tecniche secondo le tappe seguenti:
– distacco immediato del minore dalla madre e da tutto il suo contesto di vita (scuola, amici, sport, ecc.), azionato dai servizi sociali, talvolta anche con il ricorso alla forza pubblica, laddove si ritenga che la madre non sia collaborativa;
– collocazione intermedia presso una struttura, quando il rifiuto del minore di stare con il padre è drastico e non risolvibile nell’immediato;
– divieto alla madre di avvicinarsi al minore per un periodo di tempo preordinato e poi ripresa graduale dei rapporti, solo se ella mostra di avere cambiato atteggiamento (secondo le relazioni dei servizi sociali o sanitari) e di essere disponibile ad agire nell’alveo della bigenitorialità;
– trattamento specialistico disposto per il minore, in struttura o presso il padre. Del trattamento sul minore non si evincono sempre gli obiettivi e gli eventuali esiti ma, presuntivamente, si tratta di un trattamento di decondizionamento e ricondizionamento alla nuova realtà di vita con il padre, che da rifiutata deve divenire accettata”.
Proseguendo nella valutazione delle consulenze e dei decreti, sia nel campione statistico e sia nei casi emblematici, si vede come sia messo fuori campo l’ascolto del minore e il suo rifiuto ad incontrare il padre non viene assolutamente ponderato nelle decisioni che lo riguardano; in omaggio alla teoria strisciante della PAS, il rifiuto del bambino è sempre imputato all’azione materna di una madre manipolatrice e alienante, privata delle ragioni che sarebbero da collegare alla violenza subita e alla tutela dal padre maltrattante. Il rifiuto dei minori ed il loro essere spaventati e recalcitranti verso la figura paterna riguarda la totalità dei casi dei bambini sottratti alle madri dai decreti giudiziari, allineati alle consulenze; nel campione statistico il rifiuto del padre si presenta nel 12% dei casi.
A questo va aggiunto un altro dato rilevante del campione: la violenza sui minori è commessa in prevalenza dai padri nel 85,1% dei casi relativi ai tribunali minorili.
Ultimo dato presente solo nei casi emblematici (che hanno riguardato, lo ripetiamo, 36 casi di cui 25 con decreti di allontanamento dei figli) è l’attuazione dei prelievi forzosi. Questi avvengono fuori da regole di ingaggio preciso delle FFOO che stando ai decreti dovrebbero solo assistere i servizi sociali incaricati dell’esecuzione dei provvedimenti del giudice e nei fatti invece, al di fuori di ogni regola di uno stato di diritto (come recentemente indicato dalla Ordinanza di Cassazione 9691 /22), interviene adoperando la forza fisica contro i minori, producendo ferite traumatiche ben più gravi di quelle che si vorrebbero sanare riconnettendo il minore rifiutante ad un padre violento.
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