Persona, diritti personalità  -  Maria Rita Mottola  -  16/01/2022

Ordinanza Tribunale di Torino RG 6714/2021 - Un’occasione perduta

Nei giorni scorsi demmo notizia del deposito di un accertamento tecnico preventivo in materia di obbligo vaccinale sul luogo di lavoro.

Oggi pubblichiamo l’ordinanza che non ammette il mezzo istruttorio.

L’ordinanza punta l’attenzione sull’assenza di pregiudizio nel ritardo, ritenendo che il processo di merito nella sua complessità e lunghezza non possa in alcun modo compromettere diritti essenziali e primari della persona. Propone anche una lunga dissertazione sulla recente sentenza del Consiglio di Stato ( N. 7045 del 20 ottobre 2021) ma tale punto sarà oggetto di ulteriore e specifico commento

La ricorrente deduceva di non avere altri redditi se non quello da lavoro dipendente da Asl e che temeva per la propria salute chiedendo di procedere con una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare se la così detta vaccinazione (che, come ben hanno illustrato gli studiosi in materia, vaccino non è) potesse determinare un pregiudizio alla sua salute.

Il principio di precauzione, infatti, indurrebbe a ricercare se esista o meno un disequilibrio tra il rischio intrinseco alla terapia genica (vaccino Covid) e il rischio di contrarre la malattia e - contratta la malattia - riportare danni più gravi di quelli eventuali derivanti da  reazioni avverse. [1]

 Il giudicante dichiara a tal proposito che: “Presupposto indefettibile dell’azione in esame è, dunque, la necessità di procedere senza indugio ad indagini di natura tecnica, in presenza di concreto pericolo che il decorso del tempo possa pregiudicare l'acquisizione della prova (cd. pericolo di dispersione della prova: si pensi, ad esempio, all’esigenza di stabilire le cause del crollo di un edificio, prima che si proceda alla sua completa ed improcrastinabile demolizione). Detto in altri termini, “la funzione dell'accertamento tecnico preventivo è quella di preservare, in favore della parte istante, gli effetti di una prova, da assumere in via urgente, attinente ad uno stato dei luoghi o alla qualità o condizione di cose, da poter far valere in un eventuale e successivo giudizio di merito” (Cass. 26/05/2020 n. 9735). Nel caso di specie, al contrario, è del tutto assente tale profilo di urgenza, posto che  … vorrebbe far accertare, nelle forme dell'istruzione preventiva, una situazione non destinata a mutare nel tempo necessario per far valere in via ordinaria il diritto: è evidente, infatti, che la risposta al quesito peritale, come suggerito dalla parte istante, non è verosimilmente suscettibile di variare in funzione del decorso del tempo, o quantomeno del tempo occorrente per l'accertamento del diritto nel giudizio ordinario”.

Il giudicante sostiene che la situazione personale e sanitaria della ricorrente non verrebbe a modificarsi nel tempo necessario a intraprendere il giudizio ordinario. Subito però rendendosi conto che l’urgenza dedotta dalla ricorrente non risiede nella modifica “dello status quo” bensì della impossibilità di lavorare nelle more processuali, afferma: “A ben vedere, infatti, la ricorrente ravvisa l'urgenza nella asserita impossibilità di far fronte al personale sostentamento per il venir meno del reddito lavorativo (così testualmente alla pagina 4 del ricorso), tuttavia si astiene dal domandare (attivando il procedimento cautelare più consono allo scopo) l'unico provvedimento in via d'urgenza che potrebbe, coerentemente, impedire il pregiudizio imminente ed irreparabile che si paventa, ovvero la sospensione del provvedimento assunto dal datore di lavoro”.

Dunque, l’ordinanza non riconosce il presupposto dell’accertamento tecnico preventivo dell’urgenza perché le condizioni di salute della ricorrente non verrebbero a modificarsi nel tempo, mentre afferma che l’assenza di retribuzione, quale motivazione giustificante l’urgenza, possa essere fatta valere solo nell’ambito dei procedimenti di cui all’art. 700 c.p.c., ben sapendo, d’altronde, che occorre superare gli ostacoli nascenti da costante giurisprudenza di merito che nega il ricorso d’urgenza anche in ipotesi di gravi situazioni familiari che verrebbero aggravate dalla carenza di retribuzione, adducendo che tale assenza possa essere risarcita economicamente.

Parte della giurisprudenza giuslavorista, infatti, afferma che la perdita della retribuzione, per esempio conseguente a licenziamento,  non integra  il pregiudizio imminente ed irreparabile, presupposto dell'art. 700 c.p.c. perché il danno derivante è sempre risarcibile ex post, sottolineando che il periculum si realizza allorquando la perdita della fonte di reddito venga ad incidere su diritti essenziali del lavoratore, tali da richiedere un immediato soddisfacimento, quali il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa, il diritto alla salute ovvero altri diritti insuscettibili di risarcimento per equivalente, come, ad esempio, il diritto alla formazione, all'elevazione professionale o all'immagine. Deriva da tale impostazione che il lavoratore licenziato, nell’agire in via d'urgenza per la reintegrazione del posto di lavoro, deve allegare le circostanze di fatto in relazione alle quali il licenziamento stesso produce – in concreto – effetti lesivi di carattere irreparabile, che non possono reputarsi insiti nella mera circostanza della perdita del posto di lavoro e del relativo reddito. [2]

Ancora recentemente giurisprudenza di merito e in un caso di lavoratrici che rifiutavano l’obbligo vaccinale, il Tribunale in veste collegiale respinge il reclamo affermando che “il pregiudizio irreparabile, richiesto dall’art. 700 c.p.c., deve essere inteso non solo nel senso di irreversibilità del danno alla situazione soggettiva di cui si invoca la cautela ma anche come insuscettibilità di ottenere tutela piena ed effettiva della situazione medesima all’esito del giudizio di merito. Tale requisito non può ricorrere con riferimento ai diritti derivanti dai rapporti obbligatori, essendo questi per loro natura suscettibili in ogni caso di riparazione economica”. [3]

In realtà il mezzo promosso dalla ricorrente è analogicamente sovrapponibile a quello previsto dall’art. 445 bis c.p.c. a pena di improcedibilità della domanda di assegno di invalidità. In tali ipotesi la S.C. ha individuato come unico presupposto per l'ammissibilità del mezzo istruttorio l'interesse ad agire ai sensi dell'art. 100 c.p.c., così che “l'accertamento medico-legale, richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente - la quale potrebbe difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione "prima facie", altri presupposti della predetta prestazione -, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull'accertamento del requisito sanitario” [4]

L’art. 445 bis c.p.c. prevede l’ATP quale presupposto dell’azione di merito perché tale mezzo è celere, poco impattante sull’organizzazione giudiziaria richiedendo unicamente un’udienza per il giuramento del Consulente d’ufficio e non obbliga ad alcuna decisione con quello che ciò comporta (impegno degli uffici e del giudicante, potenziale impugnazione nei due gradi di giudizio, istanze di sospensiva e quant’altro). È un mezzo, quindi, diretto anche al cd. “contenimento del contenzioso” e qualora l’ATP deponga a favore del ricorrente l’Ente sarà tenuto a riconoscere l’indennità richiesta onde evitare il giudizio di merito.

Allo stesso modo, nel  caso di specie, il mezzo dedotto dalla ricorrente avrebbe potuto non solo essere utile alla stessa ma avrebbe anche contribuito alla chiarezza in una materia “impattante” sull’ordine pubblico e sulle garanzie costituzionali.

Far entrare la scienza nelle aule dei Tribunale potrebbe essere così cosa “buona e giusta” diretta ad accertare nell’ambito istituzionale (e non nei talk show televisivi) quali sono le conseguenze delle somministrazioni obbligatorie per legge (nel caso di specie quale operatore in ambito sanitario ma oggi per un’intera classe di età).

La ricorrente chiedeva accertarsi la correttezza dei presupposti scientifici che andrebbero a confermare che la somministrazione del farmaco è sicura o non lo è, è sicura per sé ma non lo è in generale, o è sicura per molti – foss’anche la stragrande maggioranza dei casi – ma non per lei.[5]

È di tutta evidenza che il responso a tali quesiti è di interesse generale ma è anche vero che è interesse della ricorrente sapere prima e non verificare dopo le conseguenze di tale obbligo surrettizio.

Perché di obbligo è doveroso parlare, proprio perché impedisce l’esercizio del diritto fondamentale su cui si fonda l’intero asseto democratico.

Se è vero che in ambito della giurisprudenza giuslavorista si afferma che, nel proporre procedimenti cautelari, il ricorrente deve dare prova del periculum in mora (nel caso di specie il giudicante non ha ritenuto sufficiente la produzione del Cud attestante come unico reddito quello derivante dal rapporto di lavoro pubblico) e nega che la perdita della retribuzione possa esser considerata, in re ipsa, un pericolo, è anche vero che la perdita del lavoro e della retribuzione determina non solo un danno economico risarcibile ex post, peraltro solo parzialmente e malamente, è soprattutto un danno alla stabilità psico-fisica del lavoratore a mente dell’art. 2087 c.c., un danno alla vita di relazione, un danno alla serenità della famiglia, un danno morale grave (senso di impotenza, senso di colpa nei confronti dei familiari che non possono essere aiutati a vivere un’esistenza libera e dignitosa, perdita di professionalità, di contatti lavorativi professionali e via discorrendo).

Ciò che è più grave è aver dimenticato che il diritto al lavoro non può essere confuso con il diritto alla retribuzione ex art. 36 Cost.

Il diritto al lavoro è il fondamento dello Stato di diritto, dello Stato nascente dall’assetto costituzionale. Senza il lavoro, o meglio, quando si giunge a dimenticare lo scopo vero e principale dell’organizzazione statuale consistente nella ricerca costante e incisiva della piena occupazione non vi è democrazia, a onore del vero, non vi è neppure uno Stato.

Tutto si fonda su quell’art. 1 caposaldo dell’intero costrutto costituzionale e rappresenta la risposta alla vittoria degli italiani nei confronti, da un lato, dei totalitarismi in atto nel periodo 1929 – 1945 con l’assunzione della forma statale di Repubblica Democratica, dall’altro del patto sociale-economico in contrasto con il liberismo suggerita da una visione capitalistica esasperata che ai suddetti totalitarismi aveva condotto. Il patto sociale-economico riconosce preminenza del lavoro sul capitale, del lavoro come forma di vita, di dignità. Di eguaglianza sostanziale. Di ricchezza per la nazione che dal lavoro trae sostegno e pienezza. L’art. 1 riconosce il principio economico della piena occupazione che può essere raggiunta solo con una presenza costante dello Stato là ove è necessaria per sostenere e incentivare l’attività lavorativa privata. Il negare funzione preminente all’art. 1 e, conseguentemente, al lavoro e alla piena occupazione, determina un ribaltamento della funzione propria dello Stato voluta dai padri costituenti, qualsiasi norma che intervenga in tal guisa è norma tecnicamente “eversiva” perché diretta a modificare la forma di Stato che la Costituzione e il popolo italiano ha voluto darsi.

Ciò che ha costruito l’attuale legislatore è un sistema “perverso” che impone al cittadino una scelta tra un bene essenziale, personale e inviolabile “la salute” e un bene essenziale, inviolabile e collettivo “il diritto al lavoro” costruendo, altresì, un ribaltamento di prospettiva.

In effetti, il legislatore, rectius il Governo perché il legislatore è ormai solo mera apparenza, insiste nel costruire un diritto alla salute collettivo che non esiste né per volontà della Costituzione né per indicazioni della giurisprudenza. Il diritto alla salute è diritto del singolo che può esercitarlo nei confronti di tutti -  danni intra lavorativi, infra-familiari, danni da reato - ed anche nei confronti dello Stato, prova ne siano le innumerevoli cause per danni alla salute causate da disastri ambientali, danni da emotrasfusioni ed eventi avversi da vaccini o da uranio impoverito.

L’habeas corpus è principio antico già radicato nel diritto romano in quella lex Iulia che riconobbe al cives il diritto al rispetto della propria integrità fisica escludendo nei suoi confronti la violenza della tortura, almeno prima della condanna, ed è il principio fondamentale della nostra cultura giuridica, quell’appartenersi, e solo a sé stessi, così tante volte sbandierato, anche a sproposito allorquando si perorava il diritto a uccidere una vita nascente. D’altra parte, non è possibile parlare di diritto al lavoro meramente in visione soggettiva del singolo, come in precedenza sostenuto, il diritto al lavoro è l’essenza stessa della nostra Democrazia. Solo il cittadino che impegna le sue energie per esprimersi al meglio, mettendo a frutto i propri talenti per sé stesso e per la collettività è veramente libero, libero dal bisogno, libero dall’oppressione della schiavitù senza riposo e senza momenti di svago, libero nella ricerca culturale e nella passione politica. In altre parole, il cittadino senza lavoro  non è soggetto politico è solo suddito.

Che la salute sia un bene individuale di interesse pubblico è stato chiarito sin dagli anni Novanta.[6]

L’art. 32 Cost. nel primo comma definisce la salute come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività"; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

“Da ciò si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.

Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili.”[7]

La Corte definisce i confini del trattamento sanitario obbligatorio, imponendo sempre, a pena di incostituzionalità, l’equo contemperamento degli interessi del singolo e della collettività, garantendo la sicurezza del singolo e relegando a mera ipotesi l’evento dannoso, sempre e comunque soggetto a risarcimento.

Ciò che oggi è ormai acclarato è che l’intero assetto legislativo emergenziale si fonda su dati “scientifici” messi a punto da un consiglio degli esperti CTS, senza garanzie di conflitto di interessi, che quasi giornalmente cambia e modifica i dati.

Recentissimo lo scandalo dei dati trasmessi in conferenza stampa dal Ministro della Salute e dal Presidente del Consiglio evidentemente e clamorosamente sbagliati. E se ci si consente la formula volgare, l’Istituto Superiore di Sanità ISS ha fatto la toppa peggiore del buco, affermando trattarsi di dati “grezzi”. Tale affermazione apre alle più svariate riflessioni e ipotesi, certamente, non depone per la trasparenza delle istituzioni.

Se così è il Tribunale di Torino ha perso un’occasione, un’occasione per ricondurre in un alveo di controllo processuale ciò che è accaduto negli ultimi due anni.

Perché è  di palmare evidenza che le norme attuali violano i principi enunciati a seguito del processo di Norimberga quando furono processati medici nazisti, poi codificati nella convenzione di Helsinki e nello Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale, principi secondo i quali  il consenso volontario è assolutamente essenziale in caso di farmaci o altre terapie sperimentali (che non hanno terminato l’iter sperimentale nel caso di specie), diritto ad ottenere un informazione chiara ed esaustiva per poter deliberare un consenso sempre ritrattabile come confermato dalla convenzione di Oviedo.[8]

Se è vero che un giudice di merito ha denunciato l’illegittimità dei DPCM nella forma e nella sostanza [9]

l’arresto ha sortito l’effetto di obbligare il Governo a emettere decreti-legge convertiti ritualmente in leggi dello Stato, una modifica nella forma ma non nella sostanza.

La sentenza citata dichiara che non si comprende “con chiarezza quale sia la logica della scelta fortemente compressiva operata dalla PA (…) e l’opzione dell’amministrazione non appare univocamente determinata dalla situazione di fatto sottostante e, talvolta addirittura contraddittoria, con ciò determinando ulteriori possibili vizi di eccesso di potere per illogicità”.

Tali contestazioni possono essere mosse anche all’attuale normativa, priva di reale sottostante motivazione, perché pur trattandosi atti normativi e non amministrativi, è evidente che la compromissione e compressione di diritti personali e inviolabili debbono essere fortemente motivate.

Nell’esaminare norme che comprimono diritti sostanziali il giudice ordinario ha il dovere di verificare se le disposizioni sono conformi al dettato costituzionale e se non lo sono deve interpretarle in aderenza ad esso o, nell’impossibilità, sottoporre la questione alla Corte costituzionale. Tale verifica è impossibile all’oggi perché le norme via via emanate si fondano su presupposti scientifici che non possono essere conosciuti dal giudice. Egli ha il diritto-dovere di farsi affiancare nella decisione da un tecnico di sua fiducia per comprendere le questioni tecniche e specialistiche.

La ricorrente, ben conscia di tali difficoltà, non ha chiesto un giudizio ma una verifica tecnica così da evitare, se del caso, il giudizio stesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]  Accertate, è bene ricordare, non secondo i principi della sorveglianza passiva, bensì attraverso un sistema di spontanea e libera dichiarazione delle conseguenze della somministrazione. La scarsa scientificità di tale sistema è di tutta evidenza lasciando alla volontà del singolo e del medico curante la denuncia. Peraltro, è evidente che conseguenze non immediate ma rilevatesi nel giro di qualche giorno potrebbero essere ignorate e ricondotte ad altre ragioni e cause. Vi è poi una sorta di blocco psicologico messo in atto da parte dei soggetti vaccinati “convintamente” che negano le reazioni avverse assumendosene il rischio e ideologicamente accettando che “la causa” richieda “eroi e vittime sacrificali”.

Si tratta di una complessa sindrome sociale conosciuta con il nome di “formazione di massa o psicologia della folla”. In parole semplici se ciascuna persona cessa di essere un unicum e diventa solo una parte della folla con essa confondendosi perde individualità e unicità, perde capacità di critica e di comprensione della realtà, adattandosi a quanto avviene intorno e rispettando appieno il principio della rana bollita enunciato dal  filosofo anarchico statunitense Noam Chomsky che così  descrive la  capacità dell’essere umano moderno di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. La formazione di massa studia come il comportamento umano venga influenzato da grandi gruppi di persone, ne hanno reso conto Gustave Le Bon, Sigmund Freud, Leon Festinger e Philip Zimbardo. Quando le persone diventano parte di una folla, si spersonalizzano. Tendono a cedere la loro identità personale, l’autoresponsabilità, l’autoconsapevolezza, il senso di colpa, l’empatia e gli altri atteggiamenti e comportamenti legati alla moralità individuale. La mentalità della folla può così prendere il sopravvento.

Recentemente Mattias Desmet, professore di psicologia clinica presso l’Università belga di Ghen, elenca le seguenti quattro condizioni come precursori necessari per l’ipnosi di massa:

  1. Mancanza di legame/coesione sociale (oggi lockdown, distanziamento sociale, esclusione da luoghi di ritrovo e di scambi culturali)
    2. Mancanza di significato/dare un senso alle cose (oggi derivante dalla perdita di occupazione produttiva, lavorativa e creativa, perdita adi rapporti sociali e familiari, assenza di speranza nel futuro e di costruzione dell’avvenire)
    3. Ansia fluttuante e malcontento psicologico (oggi nascente dalla informazione costante e martellante di pericoli e morte)
    4. Frustrazione e aggressività fluttuanti (oggi genera violenza, per ora solo verbale, nei confronti dei dissidenti)

Due anni di “persecuzione psicologica” isolamento, perdita del senso di realtà, di speranza nel futuro, di mancanza di lavoro o coercizione a un lavoro estraniante e vissuto al di fuori dell’abitudinario contesto lavorativo, mancanza di rapporti umani, di quella parte corporea ed espressiva propria dell’uomo – effusioni, abbracci, sorrisi, empatia – hanno condotto moltissimi a perdere il senso di appartenenza al proprio ambiente familiare e sociale e necessariamente a cercare un “ancoraggio” alla generalità della massa, della folla, destrutturando la loro personalità si “adeguano” e si adattano, divenendo fragili e facilmente suggestionabili.

[2] (Trib. S. Maria Capua Vetere, 24 luglio 2012).

 

[3] Secondo la sentenza citata l’esistenza del periculum in mora “deve essere accertata caso per caso in relazione all'effettiva situazione socio economica del "lavoratore", talché il ricorrente è tenuto ad allegare e provare circostanze (in ordine alla sua situazione familiare, alla necessità di affrontare spese indilazionabili, alla compromissione del suo equilibrio psico fisico) dalle quali emerga che la perdita del posto di lavoro o la mancata assunzione – e quindi la conseguente perdita (o mancata acquisizione) della retribuzione – possa configurarsi come fonte di pregiudizio irreparabile, così da permettere alla controparte l'esercizio di un'effettiva difesa ed al giudice di operare una verifica finalizzata alla tutela di un pregiudizio concretamente e non teoricamente irrimediabile, non potendo il periculum in mora reputarsi esistente in re ipsa neppure nel fatto stesso della disoccupazione la mera perdita della retribuzione non concretizza di per sé il pregiudizio imminente ed irreparabile di cui all’art. 700 c.p.c., trattandosi di danno sempre risarcibile ex post. Siffatto presupposto si realizza, per contro, allorquando la perdita della fonte di reddito incida su diritti essenziali del lavoratore, tali da richiedere un immediato soddisfacimento, quali il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, il diritto alla salute ovvero altri diritti insuscettibili di risarcimento per equivalente, come, ad esempio, il diritto alla formazione, all’elevazione professionale o all’immagine. Ne discende che il lavoratore che agisce in via d’urgenza deve allegare le circostanze di fatto in relazione alle quali il provvedimento datoriale produce - in concreto - effetti lesivi di carattere irreparabile che non possono reputarsi insiti nella mera circostanza della perdita della retribuzione” (Tribunale di Modena, Sez. Lav., 23 luglio 2021, n. 2467; similmente Trib. Catanzaro nel procedimento RG NR 1637/2021)

 

[4] (Cass. 26 maggio 2021, n.14629, GCM, 2021 in senso conforme Cass. Civ., n. 2587 del 2020).

 

[5] Proponeva, infatti, il seguente quesito: accertare e descrivere, sulla base dei dati anamnestici ed anche attraverso accertamenti diagnostici, incluso quello, in particolare, del titolo anticorpale inerente al SARS-CoV-2, lo stato psico-fisico attuale della ricorrente; - accertare e dichiarare se sussista, nel Comune di Torino, all’interno del quale opera e lavora la ricorrente, lo stato di emergenza sanitaria; - valutati i dati anamnestici e le risultanze diagnostiche della ricorrente e verificata la compatibilità con la vaccinazione imposta con D.L. 172/2021 con i “vaccini anti Covid-19” denominati Comirnaty, Spikevax, Janssen, Vaxzevria - “medicinali per prevenire Covid19 malattia causata da SARS-COV-2” - (v. foglio illustrativo, scheda con caratteristiche del prodotto e nota informativa di ciascuno di essi), accertare eventuali rischi per la salute della ricorrente conseguenti alla vaccinazione; quantificare detti rischi sulla base delle attuali risultanze tecnico-scientifiche, anche in ordine ad eventuali stati patologici che potessero insorgere nel medio e lungo termine, dopo la vaccinazione della ricorrente, ed alla luce delle risultanze del titolo anticorpale della ricorrente; - con riferimento alla natura, all’afflittività ed alla durata degli effetti avversi da vaccino, ai quali la ricorrente si deve esporre – sottoponendosi alla vaccinazione - per ottemperare all’obbligo di cui al D.L. 172/2021, evidenziare quali e quanti danni per la pagina2 di 7 salute ne potrebbero conseguire, offrendo una valutazione nel breve, medio e lungo termine; - verificare se, alla luce delle evidenze tecnico-scientifiche oggi raggiunte e del principio del c.d. «ignoto irriducibile», possa concludersi che la ricorrente debba sottoporsi al trattamento sanitario obbligatorio di cui al D.L. 172/2021 senza rischio per la sua salute; precisando che il consulente sarà tenuto altresì a: - accertare la sussistenza ad oggi dei quattro requisiti sui quali poggiano le autorizzazioni condizionate (c.d. CMA) dei vaccini utilizzati nella campagna vaccinale sopra elencati, verificando in particolare: a) la congruità del rapporto rischi/benefici della vaccinazione rispetto alla salute della ricorrente; b) l’insussistenza di farmaci per la cura della malattia da SARS-CoV-2 e dunque chiarendo se i vaccini in uso costituiscano l’unica risposta ad una esigenza medica che, se soddisfatta in altro modo, eviterebbe alla ricorrente di incorrere nei rischi connessi alla vaccinazione (atteso che tale dato conoscitivo, se statisticamente rilevante, deporrebbe per uno sbilanciamento della valutazione rischi benefici a favore dei rischi); c) i dati relativi statistici e di letteratura scientifica agli effetti avversi conseguenti alla vaccinazione effettuata nella popolazione europea da Gennaio 2021 sino ad oggi, con riferimento alle eventuali conseguenze che, tenuto conto di tali dati, potrebbero manifestarsi a carico della salute della ricorrente; - verificare se, dai dati statistici e di letteratura scientifica sino ad oggi emersi, si possa concludere che la profilassi vaccinale non soltanto evita lo sviluppo della malattia ma evita, altresì, in modo significativo, il contagio e, tenuto conto di tali dati, se tale profilassi potrebbe evitare lo sviluppo della malattia e la trasmissione del virus per quanto attiene alla ricorrente con significativo ed elevato grado di probabilità (determinandosi, in caso contrario, la sostanziale inutilità della vaccinazione per la ricorrente); - accertare e descrivere i danni da vaccinazione (come derivabili dalla statistica e dalla letteratura scientifica disponibili), riscontrati a seguito di inoculazione dei vaccini della campagna vaccinale, sino ad oggi rilevati e documentati e, tenuto conto di tali dati, se tali danni potrebbero manifestarsi nella ricorrente con eventuali ripercussioni sul suo stato di salute”

 

[6] C. Cost. 307/1990

[7] Così continua la sentenza citata: “con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute - e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell'imposizione del trattamento sanitario - implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare, finirebbe con l'essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito.

E parimenti deve ritenersi per il danno - da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile - riportato dalle persone che abbiano prestato assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le sue conseguenze immediate).

Se così è, la imposizione legislativa dell'obbligo del trattamento sanitario in discorso va dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un'indennità come quella suindicata”.

 

[8] Convenzione di Oviedo art. 5 “un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.”

 

[9] (Trib. Roma sez VI  ordinanza 16 dicembre 2020, emanata dal giudice Alessio Liberati R.G. 45986/2020) “Punto indiscusso è che le libertà fondamentali degli individui siano state compresse attraverso un DPCM”: la natura amministrativa di esso, tuttavia, resta “anche laddove un provvedimento avente forza di legge, preventivamente lo ‘legittimi’ e sempre che tale legittimazione ‘delegata’ sia attribuita nei limiti consentiti”.

In questa prospettiva non vi è dubbio che l’azione amministrativa che operi attraverso atti amministrativi sia responsabilizzante, in quanto esposta, diversamente dall’operare attraverso atti aventi forza di legge, anche alle ulteriori censure tipiche dei provvedimenti amministrativi, e non solo al sindacato politico”. Occorre verificare in primis e in via generale la “idoneità del DPCM a comprimere i diritti fondamentali che ha, di fatto, investito e compresso”.

Nella Costituzione è prevista una sola ipotesi di attribuzione al Governo di poteri normativi tipici: quella relativa alla dichiarazione dello stato di guerra (art. 78 e 87 Cost.), mentre non vi è alcun riferimento alla dichiarazione dello stato di emergenza per rischio sanitario. Ne consegue che la dichiarazione del Consiglio dei ministri del 31/01/2020 è stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, ed è quindi illegittima, in quanto nessuna fonte costituzionale o di legge ordinaria attribuisce al Consiglio dei ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. Da ciò deriva, altresì, l’illegittimità di tutti gli atti amministrativi conseguenti.

In sentenza si esamina il DPCM del 26/04/2020, emanato con la “copertura” legislativa decreto-legge n. 19, del 25/03/2020 concludendo che il Dpcm è illegittimo perché il provvedimento normativo che lo sorregge contiene norme generali e astratte, non tipizza i poteri e non fissa un termine, in contrasto con l’art. 76 Cost., che stabilisce che “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegata al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. I successivi Dpcm disciplinanti la c.d. fase 2 ad avviso del giudicante sono illegittimi in quanto in contrasto con gli articoli dal 13 al 22 della Costituzione e con l’art. 77 Cost. E’ altresì illegittimo perché non fissa un termine, poiché la temporaneità dei Dpcm “appare in realtà solo formale” (così anche giustizia amministrativa “tenuto conto che le misure finora assunte per fronteggiare l’epidemia da Covid 19, di cui la difesa erariale enfatizza la temporaneità, nei fatti risultano avere sostanzialmente perso tale connotazione stante la rinnovazione di gran parte delle stesse con cadenza quindicinale o mensile” Tar del Lazio ordinanza n. 7468/2020, sul DPCM 3.11.2020). La citata sentenza lamenta anche “un ricorrente difetto di motivazione” di tutti i Dpcm che ex l’art. 3 della legge 241/1990, in quanto atti amministrativi devono essere adeguatamente motivati;  e non con una motivazione “redatta in massima parte con la tecnica della motivazione per relationem, con rinvio ad altri atti amministrativi e, in particolare (ma non solo), ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS)”.  Si ricorda che i verbali del CTS non sono sempre disponibili né conoscibili, rendendo  impossibile o estremamente difficoltoso il riscontro per relationem. L’assenza di una reale motivazione impedisce il sindacato su un eventuale eccesso di potere. “Sul punto talvolta non è emerso neanche, dal combinato disposto dei DPCM e verbali del CTS, un adeguato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, che fosse cioè basato su una istruttoria completa e su una chiara e univoca presa d’atto della situazione di fatto”. Tale difetto è stato rilevato dal Tar Lazio con riferimento al DPCM del novembre 2020: “dal DPCM impugnato non emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili” (Tar Lazio, ordinanza n. 7468/2020).

 “con chiarezza quale sia la logica della scelta fortemente compressiva operata dalla PA (…) e l’opzione dell’amministrazione non appare univocamente determinata dalla situazione di fatto sottostante e, talvolta addirittura contraddittoria, con ciò determinando ulteriori possibili vizi di eccesso di potere per illogicità”.

 


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