-  D'Ambrosio Mary  -  31/05/2014

REATI E CULTURA – Mary DAMBROSIO

La garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (artt. 2, 29 e 31 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., commi 1 e 2), costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.

Questo richiamo ai principi fondamentali dell"uomo, riconosciuti, sanciti e custoditi dalla Carta Costituzionale, è operato dalla Corte di Cassazione, VI sez. penale, con sentenza n. 19674 del 13/05/2014.

In questa sentenza la Suprema Corte ha ribadito il principio, già espresso in precedenti pronunce, per cui è da considerare del tutto irrilevante, al fine della configurabilità della contestata fattispecie incriminatrice (nel caso de quo consistita nel reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p.), l'evocata presenza di un "sostrato culturale chiaramente estraneo a quello Europeo".

La pronuncia in esame offre lo spunto per riflessioni, di quotidiano riscontro materiale, che hanno visto catalizzato il lavoro di giuristi e studiosi delle scienze sociali.

Dall"analisi delle conclusioni raggiunte dai giudici nazionali, e dal raffronto con i differenti approcci politico-sociali offerti dagli stati europei ed extraeuropei, emerge un variegato panorama di considerazioni in ordine alla rilevanza in sede penale del condizionamento operato dalla cultura di provenienza sull"agere dell"imputato straniero.

Lo studio si compone di tre aspetti fondamentali.

Innanzitutto bisogna partire dall"analisi della condizione di individuo "portatore di una diversa cultura".

Ogni soggetto ha all"attivo un corredo di valori, credenze e modi di guardare al mondo che, nel caso dei migranti, viene a esplicarsi all"interno di un paese ospitante, caratterizzato a sua volta da propri usi e tradizioni.

In secondo luogo va osservato il modo in cui vengono a interagire queste differenze culturali e quali sono gli effetti che possano scaturirne.

È evidente, infatti, che ogni popolo ha un proprio vissuto, una propria identità, cui è pervenuto in anni, secoli, di storia.

Questa "diversità" può portare, e sovente lo fa, a una collisione materiale tra modi di vivere che danno origine a fatti di rilevanza penale. Ed è proprio nel codice penale, nella distinzione tra ciò che è lecito da ciò che non lo è, la cristallizzazione dei valori di una nazione.

Bene lo spiegano gli avvocati Fulvio Gianaria e Alberto Mittone nel loro lavoro: Culture alla sbarra.

Quando le cronache portano alla luce fatti di reato che vedono coinvolti cittadini che provengono da paesi differenti la reazione dell"uomo comune è di rifiuto e condanna. Ci si potrebbe attendere niente di diverso?

L"immigrato, avendo deciso di vivere entro i confini di uno Stato diverso dal proprio d"origine è tenuto, al pari dei cittadini del paese ospitante, al rispetto delle leggi di quello Stato.

Ma questa logica stringente non si rivela così idonea a spiegare i fermenti di disagio che vivono i cittadini di nuovo conio a fronte dell"aspettativa di adeguamento che la realtà che li circonda ha nei loro confronti.

In terzo luogo sarebbe interessante comprendere a quali rimedi fare ricorso per colmare il divario fra il mondo che ognuno porta con sé perché gli è stato tramandato e quello con cui si ritrova a vivere.

Il primo e il secondo punto costituiscono un continuum.

L"enciclopedia Treccani propone una nutrita varietà di accezioni del termine "cultura". Ci si potrebbe limitare a quello più vicino agli obiettivi del presente articolo e rinvenibile in etnologia, sociologia e antropologia culturale: l"insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale.

Orbene, ogni individuo è "messaggero di cultura". Il duo Gianaria-Mittone rappresentano questo concetto riportando numerosi esempi di come la diversità di usanze e credenze cui ogni individuo è soggetto in quanto appartenente ad un popolo, possa fatalmente risultare avulsa dal contesto storico-giuridico del luogo in cui si manifesta: gli Indù, ad esempio, ritengono che alla morte dell"uomo lo spirito di questo debba essere accompagnato al regno degli Antenati attraverso un complesso rituale che prevede, tra le altre cose, la cremazione del corpo su una pira allestita in riva a un fiume o al mare e la successiva dispersione delle ceneri in acqua. Se parte dei rituali viene omessa o mal applicata l"anima del defunto diventa uno spirito maligno. È ben evidente, stante l"assunto finale, quanto possa essere rilevante per gli Indù portare a termine il rituale così come previsto dalla tradizione, anche a rischio di contravvenire alle norme del paese ospitante.

Ci si deve chiedere allora se l"autore di un reato culturalmente motivato sia consapevole di violare la norma del luogo in cui vive, se magari il suo intento è proprio quello di violare la legge del luogo in cui vive, o se questo è piuttosto un effetto secondario rispetto al suo vero obiettivo. E quale sarebbe il suo vero obiettivo? Non contravvenire alle leggi della propria tradizione, della propria famiglia, della propria gente.

Gli autori citati distinguono nettamente i reati culturali da quelli commessi per convinzione: "mentre il delitto culturalmente orientato sorge per la difficoltà di uniformarsi a regole non proprie, quello per convinzione riguarda chi sarebbe in grado di agire con legalità ma per scelta la respinge" "chi commette un crimine orientato dalla cultura si trova dinanzi ad un conflitto: doversi comportare secondo la tradizione che conosce oppure rispettare le regole della collettività".

Se, quindi, ogni individuo è inevitabilmente avvinto dai lacci delle proprie tradizioni etniche non si può invero dare per scontato che ogni azione posta in essere dall"uomo sia da ricollegare agli usi e costumi del paese di provenienza.

A fronte della inevitabilità della culla in cui si nasce, infatti, si palesa compito arduo, ma necessario, quello di individuare caso per caso la linea di congiunzione tra la condotta dell"individuo e il sistema di valori che ne caratterizza il paese d"origine.

Il reato commesso è spesso il portato di quei valori, ma non sempre.

Può accadere, infatti, che condotte meramente attribuite a una etnia di provenienza, al pari di usi culinari e costumi estetici, siano piuttosto espressione del personalissimo modo di pensare del singolo individuo. Emblematico il caso Pusceddu, ampiamente noto alle cronache.

Queste considerazioni acquistano una rilevanza indiscutibile alla luce delle spinte migratorie che interessano la popolazione mondiale: il rapporto di Caritas e Migrantes del 2013 evidenzia come oltre 232 milioni di persone, più del 3% della popolazione mondiale, hanno lasciato il proprio paese nel 2012 per vivere in un"altra nazione, mentre nel 2000 erano 175 milioni. L"Europa e l"Asia, con oltre 70 milioni di migranti ciascuno, sono i continenti che ospitano il maggior numero di migranti, pari a circa i due terzi del totale mondiale entrambi. In Italia all"inizio del 2013 risiedevano in Italia 59.685.227 persone, di cui 4.387.721 (7,4%) di cittadinanza straniera. La popolazione straniera residente è aumentata di oltre 334 mila unità (+8,2% rispetto all"anno precedente).

Questi dati evidenziano come quotidiano è l"incontro-scontro tra culture differenti all"interno del territorio nazionale, e come da questo incontro-scontro sia possibile trarre motivo di arricchimento e stimolo, come motivo di scontro e rifiuto.

Quale risposta dare ai reati culturalmente orientati?

Nei paesi così detti pluralisti si cerca di pervenire ad una giustizia sostanziale, ricercando soluzioni differenti rispetto a casi differenti, arrivando a prevedere regole speciali per gruppi o etnie. Un caso per tutti è quello dei Sikh ai quali la Gran Bretagna concede di portare il turbante anche quando sarebbe obbligatorio indossare il casco. Il rischio connesso a questo approccio è quello di "penalizzare le spinte innovatrici che premono verso l"affrancamento di valori ereditati". In altre parole il rispetto degli usi e dei costumi particolari non deve risolversi a danno della parte debole della comunità immigrata, quella che trarrebbe piuttosto beneficio dall"adeguamento ai valori del paese ospitante, in particolare donne e bambini.

I paesi così detti assimilazionisti esigono il rispetto e l"adeguamento alle regole del paese ospitante da parte delle etnie immigrate senza eccezioni o trattamenti differenziati. Lo scopo è quello di fare degli stranieri nuovi cittadini. Il rischio è che l"integrazione "coatta" possa dare origine a episodi di violenza e creare, contrariamente agli obiettivi, un esasperato etnocentrismo con conseguente intolleranza reciproca.

Se ne deduce che una legislazione ad hoc per il riconoscimento della condizione di "immigrato portatore di una diversa cultura" potrebbe essere utile e al contempo foriera di ingiustizie.

Il nostro codice penale si pone in una prospettiva tendenzialmente neutrale rispetto alle istanze culturali delle minoranze, fatta eccezione per alcuni interventi legislativi di recente fattura, come quello che ha introdotto l"art. 583bis, che disciplina il reato di "pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili", e l"art. 600 octies c.p., che introduce il reato di "impiego di minori nell"accattonaggio" e, in ragione dei quali, si potrebbe declinare un approccio "assimilazionista" del nostro paese teso a prevenire e vietare, con norme specifiche, reati di chiara impronta culturale.

D"altro canto, il prof. Fabio Basile, docente di diritto penale presso l"Università di Milano, individua spiragli di multiculturalismo nella nostra legislazione (quella che consente la macellazione secondo il rito islamico e in deroga alle norme, penalmente sanzionate, a tutela degli animali). Questo autore poi, nel suo "Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati", mette in luce una serie di istituti e articoli presenti nel nostro codice penale che potrebbero fungere da riferimento ai fini dell"attribuzione della giusta rilevanza al fattore culturale in sede di giudizio. Strumenti, cioè, a cui fare ricorso per adeguare la pena alla gravità del reato nonché alla colpevolezza del suo autore.

Distinti i reati bagatellari da quelli ad elevata offensività, per i primi ecco individuate: le clausole di illiceità speciale, l"esercizio del diritto quale scriminante ex art. 51 c.p., l"ignoranza inevitabile della legge penale, l"errore sul fatto che esclude il dolo ai sensi dell"art. 47 c.p.

Per quanto riguarda i reati ad alta offensività, l"autore prospetta un possibile impiego dei predetti istituti o articoli ai soli fini della determinazione del quantum di pena da applicare ex art. 133 c.p., quale circostanza attenuante o ai fini della non applicazione delle circostanze aggravanti. Ne esclude il ricorso ai fini assolutori: i reati ad alta offensività attingono i diritti fondamentali dell"uomo e nessuna tradizione, credo religioso, concezione di vita, possono giustificare una tale lesione.

La Cassazione ne spiega il perché nella sentenza n. 46300 del 2008:  "Il giudice non può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia con le norme positive vigenti, "caso per caso", "situazione per situazione", assicurando ad un tempo:

a) tutela alle vittime (irrilevante l'eventuale loro consenso alla lesione di diritti indisponibili: cfr. Cass. Penale sez. 6^, 3398/1999, Rv. 215158, Bajarami);

b) garanzie agli accusati, in punto di rigore nella ricerca della verità e nell'applicazione delle norme;

c) e infine, a responsabilità accertata, personalizzazione della condanna (Corte Costituzionale, 253/2003), con una sanzione che va ricercata ed individuata nel rispetto del principio di "legalità delle pene", sancito dall'art. 25 Cost., comma 2, atteso che tale norma costituzionale ha dato forma ad un sistema in cui l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l'uniformità (Corte Costituzionale n. 50/1980 Num. mass.:0009478; Sent. n. 299/1992).

"In tale ottica, il ruolo di mediatore culturale che la dottrina attribuisce al giudice penale, non può mai attuarsi - come richiesto nel ricorso - al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice della irrilevanza della "ignorantia juris", pur letta nell'alveo interpretativo della Corte delle leggi." "Vanno in proposito adesivamente richiamati i principi costituzionali dettati: dall'art. 2, attinenti alla garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (ai quali appartiene indubbiamente quello relativo all'integrità fisica e la libertà sessuale), sia come singolo sia nelle formazioni sociali (e fra esse è da ascrivere con certezza la famiglia); dall'art. 3, relativi alla pari dignità sociale, alla eguaglianza senza distinzione di sesso e al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (cfr. in termini: Cass. Sez. 6^, 20 ottobre 1999, Bajrami). Tali principi costituiscono infatti uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come "antistorici" a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l'affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero."

Parafrasando la sentenza riportata: il riconoscimento del diritto alla espressione della propria cultura non può avvenire attingendo diritti di pari grado, ledendo principi di natura fondamentale tutelati dalla Carta Costituzionale o dalle Convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani.

Si tratta di limiti "non negoziabili".

 

Alla luce dell"evoluzione culturale che ha investito l"Italia nella seconda metà del secolo scorso, e in forza della quale oggi è possibile disquisire di costumi "antistorici", si rende necessaria una constatazione: non esiste una distanza siderale tra alcune manifestazioni del portato culturale degli immigrati, soprattutto in ambito familiare, e quella che era l"impostazione patriarcale contemplata dal codice Rocco.

L"art. 544 c.p. prevedeva l"estinzione dei reati di cui al Capo I (519 della violenza carnale, 520 congiunzione carnale commessa con l"abuso della condizione di P.U., 521 atti di libidine violenti, 522 ratto a fine di matrimonio, 523 ratto a fine di libidine ecc.ecc.) e dell"art. 530 (corruzione di minore) nel caso in cui l"autore del reato contraesse matrimonio con la persona offesa. L"art. 551 c.p. prevedeva che se alcuno dei fatti previsti dagli artt. 545 e ss. (aborto di donna non consenziente, aborto di donna consenziente, morte e lesione della donna ecc. ecc.) era commesso al fine di salvare l"onore proprio o di un prossimo congiunto le pene ivi stabilite erano diminuite da un terzo alla metà. L"art. 587 così recitava "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella [c.p. 540], nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni [c.p. 29, 32] (…)"

Gravi reati potevano quindi essere commessi e rimanere impuniti sotto l"ombrello dell"onore e della patria potestà.

Per inciso, l"art. 587 c.p. è stato dichiarato incostituzionale nel 1981.




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