dentro c’era una commessa, che era uscita per la pausa di chiusura. Genvie mi aveva accolto sorridendo.
Si trattava di un negozio non grande, come metratura, le merci esposte erano di vario tipo; diverse da come mi ero immaginato, più strane e composite. Vestiti liberty, sculture africane, giacche damascate, scarpe fatte a mano, gioielli dell’ottocento, grandi foulard di seta e mohair. C’era confusione in apparenza, non ero un esperto, l’insieme però funzionava.
‘’C’e come un ordine nascosto, un filo che lega i vari capi’’, avevo commentato.
Lei aveva sorriso: portava dei calzoni neri, larghi e fruscianti, una magia azzurro grigia. Attraente la come al solito. C’eravamo sistemati accanto a un tavolino, verso il fondo del locale, su due piccole sedie di legno.
Le avevo riassunto la chiacchierata con Dorian, aveva ascoltato in silenzio. Qualche parola su Joseph poi, non c’erano grandi novità; dopo un attimo era arrivato da mangiare, da una trattoria vicina, Genvie aveva fatto le ordinazioni in precedenza
Terrine varie mignon di pesce, preferisco ‘’non stare fra la gente all’ora di pranzo ’‘, così dicendo Genvie era andata’ ad abbassare le tende, lungo le due vetrine sulla strada, nessun passante così poteva vedere dentro.
Eravamo rimasti lì a mangiare, un boccone ogni tanto, nessuno dei due aveva fame; pareva non accorgersi del mio viso, Genvie, dei miei suoi difetti; e come sempre era inconsapevole del suo magnetismo, di ciò che emanava - priva di distacco poi, senza freddezza, al solito, parlando mi sfiorami il polso, ogni tanto, se si alzava sentivo l’aria che muoveva.