-  Redazione P&D  -  09/03/2015

EXHEREDATIO ED EVOLUZIONE DELLA LIBERTAS TESTANDI – Luigi TRISOLINO

 

-La exheredatio del diritto romano

-Cenni sulla diseredazione dall"età post-giustinianea all"età delle codificazioni

-Riflessioni sulla evoluzione dell"autonomia testamentaria e della libertas testandi

 

Si suole inquadrare la clausola diseredativa come la clausola testamentaria in cui il testatore dispone di voler escludere, dal quadro dei propri successibili, uno o più soggetti che altrimenti sarebbero ex lege vocàti a succedergli mortis causa nella titolarità dei rapporti patrimoniali.

La parola "diseredazione", se la si osserva nella sua valenza etimologica e di forma, ha tutta l"aria d"esser considerata la figlia diretta dell"istituto romanistico della exheredatio: sarà un caso di quelli che gli Inglesi chiamano false friends, o una anacronistica verità? Riprendendo l"interrogativo elevato precedentemente circa il feeling intercorrente tra la diseredazione e il suo omonimo in lingua latina, è questa la sede operativa nella quale e attraverso la quale considerare la storia e l"evoluzione dell"istituto oggetto del nostro interesse, per poi successivamente avere gli strumenti per rispondere agli interrogativi che ex ante si presentano alla mente.

L"espressione di un accentuato potere di autonomia, concretantesi nella exheredatio,  risultava sconosciuta al diritto successorio arcaico, ove soleva scorgersi l"impossibilità per il pater familias di disporre del patrimonio ereditario. In età arcaica, invero, mancava una successione atta ad esplicare il passaggio del patrimonio dal proprietario originario all"erede; la strutturazione dei rapporti familiari era basata sul consortium, quindi sulla contitolarità del patrimonio familiare, e sul conseguente divieto di diseredare un figlio, con inoltre il complementare divieto, in capo a costui, di rinunciare alla hereditas.

La libertà di testare si sviluppò in epoca successiva alle XII Tavole (che la riconoscevano ancora in modo soltanto indiretto), fino ad assumere, poi, un carattere quasi assoluto. Le XII Tavole, in realtà, prevedevano solo una lieve attenuazione del divieto di disporre, poiché riconoscevano la possibilità che il pater familias disponesse, appunto, dei suoi beni personali, eliminando quindi l"uso precedente della loro seppellitura col dominus (VOCI). Si dissolse così, per via consuetudinaria, il consortium, e ciò permise al pater familias di regolare la destinazione del proprio patrimonio prima attraverso la mancipatio, poi per mezzo del testamentum per aes et libram.

Difatti, al tempo delle XII Tavole, che accoglievano tra le righe una libertà testamentaria soltanto indiretta, le uniche forme di testamento conosciute, invece, erano il testamentum in procintu e il testamentum calatis comitiis: il primo era prerogativa dei soldati in procinto di combattimento, il secondo era permesso solo due volte l"anno innanzi ai comizi curiati e si confondeva con l"adrogatio, esprimendo quindi la funzione di una "adozione" mortis causa (ove il testatore sine liberos poteva porre nella posizione di figlio un estraneo con una pseudo-adozione). Il testamentum per aes et libram, successivo, si caratterizza per la necessità della heredis institutio (heredis institutio est caput et fundamenti totius testamenti), nonché per la universalità della successione testamentaria (nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest) e per la patrimonialità, giacché col testamento non poteva che disporsi che dei beni. Questa libertà di testare originaria rimase fino all"ultimo secolo della Repubblica, sostanzialmente immutata: si venne solo stabilendo meglio un rigoroso regime formalistico secondo il quale i sui heredes (le persone in potestà del pater alla morte di questo) e i discendenti sopravvenuti (i postumi) non potevano essere ignorati (praeteritio) nel testamento, ma dovevano essere contemplati espressamente e con forma sacramentale, per istituirli o per estrometterli dall"eredità. Si tratta della c.d. successione necessaria formale o successione legittima formale. Per quel che concerne la capacità diseredativa, al tempo di Augusto imperatore vi fu anche un editto che proibì la diseredazione del figlio militare (stante sicuramente l"importanza centrale riconosciuta a un impero che ha il proprio vezzo e il proprio sguardo rimirante verso nuovi orizzonti da annettere), ma in seguito siffatto divieto cadde in desuetudine. Tuttavia, mentre da un lato si affermava la libertà di testare, dall"altro, l"onere di non sottacere i propri successibili e il rigido formalismo prescritto dovevano incisivamente condizionare la volontà del testatore. Tant"è che, nell"ultimo secolo della Repubblica, nell"insinuarsi di costumi e orientamenti filosofici ed etici rinnovati, vennero introdotti dei rimedi legali contro le ingiuste diseredazioni dei propri familiari, rimedi volti a mitigare restrittivamente la libertà di exheredare, integrando secondo gli studiosi la c.d. successione necessaria materiale o successione legittima reale. In una società che stava comunque cambiando, sostituendo sempre più il concetto di familia con quello di hereditas,   pharmakon per sedare l"iniustum di un volere diseredativo era la querela inofficiosi testamenti. Le novità che invigorivano la maggiore autonomia in capo al pater, e con essa le conseguenti regole di dichiarata e solenne estromissione dei propri discendenti dalla hereditas, pare si facciano risalire, secondo alcuni studi, addirittura al testamentum calatis comitiis  e non alla piuttosto tarda elaborazione dottrinale. Abbiamo detto che il regime giuridico ereditario era caratterizzato dal formalismo, ma, è bene tener presente che tale caratterizzazione non era posta a tutela degli interessi patrimoniali dei discendenti legittimi (e dei successibili in genere). Per poter attribuire la qualifica di heredes a degli extranei era necessario aver prima solennemente privato della medesima i sui heredes, qualità che appartiene loro in via originaria. L"exheredatio costituiva, quindi, per il testatore, il presupposto di legittimazione per poter disporre a favore dei non appartenenti alla sua cerchia familiare, e costituiva perciò condizione stessa di validità del testamento. Volendo già ricapitolare in sintesi, possiamo sostenere che, essendo l"heredis institutio elemento essenziale e sufficiente a delineare in modo esauriente il contenuto del testamento romano, e non essendo possibile per il testatore, almeno fino all"ultimo secolo della Repubblica, ignorare gli heredes sui (i soggetti nella propria potestas quale pater familias) e i postumi (i suoi discendenti sopravvenuti), per poter egli attribuire la qualifica di heredes a soggetti diversi da questi, ossia gli extranei, occorreva privare i primi di tale status loro proprio attraverso una esplicita manifestazione di volontà di natura ablativa e, in particolare, destitutiva, ossia con la exheredatio. L"Arangio-Ruiz ha valutato l"exheredatio come un atto preparatorio all"adozione di un estraneo. Essa, inoltre, poteva essere compiuta dal pater solo in dipendenza della formale privazione fatta al figlio della qualità di erede (F. GERBO). Anche se sotto regimi diversi, la diseredazione, intesa quale atto formale di destituzione dei propri congiunti più prossimi compiuto dal testatore, è previsto nelle tre fasi che si possono tracciare nel cammino vivo del diritto romano (precedente quindi al periodo ampiamente posteriore di più o meno sciatta aemulatio della romanistica), ossia il ius civile, il ius honorarium e il diritto giustinianeo, confluiti nella resa tassativa dei casi di esclusione per mezzo dell"istituto de quo.

Nel diritto romano riveste un"importanza tutta peculiare il conseguimento o il mancato conseguimento della qualità di heres, la quale non ha soltanto una accezione patrimonialistica, ma anche e soprattutto ideale, intima e spirituale. Infatti, non appare consona allo "spirito del tempo" una visione freddamente funzionalistica atta a valutare la diseredazione romana all"interno dell"ingegneria successoria, visione che tiene particolarmente in evidenza come l"exheredatus potesse comunque conseguire anche l"intero patrimonio sottoforma di legati. Il diseredato avvertiva intimamente d"esser tale giacché si sentiva privato e svestito di una qualità non surrogabile dalle mere attribuzioni patrimoniali. Si trattava, in fin dei conti, di sentimenti umani. Cicu, studioso delle successioni, scriveva che nel diritto romano "Istituire una persona erede non significava disporre di propri beni, ma attribuire la qualità di erede. Conseguentemente la disposizione di singoli beni che il testatore [avesse fatto] non aveva effetto se non in quanto egli [avesse nominato] un erede: far testamento significava nominare un erede" (CICU).

Seppur in un"ottica tipica della cultura giuridica comparatistica, c"è chi, riconoscendo come sostrato comune al diritto delle successioni, gli istituti della proprietà e della famiglia, immagina di poter definire quattro diversi modelli successori (A. ZOPPINI): il primo basato su una successione familiare e non proprietaria (quindi la successione nella proprietà familiare del gruppo parentale); il secondo modello basato su una successione che non è né familiare né proprietaria (quindi riconducibile alla successione necessaria dello Stato nell"eredità intera, come avvenne in Russia durante il fervore degli inizi della stagione rivoluzionaria); il terzo modello basato su una successione proprietaria e non familiare (che informa le legislazioni e in generale i sistemi giuridici caratterizzati dalle libertà testamentarie, come l"Inghilterra tra il XIX e il XX secolo); infine, il quarto modello, basato su una successione che sia insieme familiare e proprietaria, il quale realizza un equilibrio tra la libertà dispositiva tipica dell"istituto proprietario e la solidarietà dell"istituto giuridico (per antonomasia, ma, si spera sempre) fondato sull"amore, la famiglia. Malgrado sul mare delle successioni del diritto romano s"ergesse il cielo terso della trasparenza e della condanna all"indifferenza verso i figli, non si arrivò a veder splendere i concetti e i valori altisonanti (magari alquanto seguaci di una certa ottocentesca retorica "perbene"), che verranno invece espressi nella relazione Pisanelli del codice civile italiano del 1865, ove la voluta omissione dell"istituto diseredativo era inscritta all"interno di un disegno anche moralizzatore del diritto; né il diritto romano arrivò mai a toccar le corde del principio del perdono proto-cristiano, fautore di quella pax in terram da realizzare anche mediante l"unità delle famiglie, essendo, la tessitura sociologica e civilistica romana, rimasta sempre nella dimensione "laica" dell"onore della qualifica, e della non indifferenza verso i figli al di là se in senso istitutivo o destitutivo. A quest"ultimo proposito, infatti, si rammenti la regola coagulata nel brocardo heredes sui aut instituendi aut exheredandi sunt, postulante il divieto di praeteritio, regola la quale certamente non fa da angelo custode alla garanzia e alla tutela effettiva degli interessi patrimoniali dei sui. La ratio formale del divieto di preterizione deriva in ultima analisi dal principio solus Deus, non homo, heredem facere potest (CANCELLI).

La exheredatio era inoltre totalitaria, poiché, in virtù del principio nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, doveva escludere da tutto il patrimonio per il principio di alternatività tra successione testata e intestata. Ancora, l"exheredatio a dir delle fonti, non tollerava condizioni (salvo quella potestativa) né poteva essere subordinata all"accettazione dell"estraneo o collegata alla morte del suus. Ed è da sottolineare che l"inosservanza anche soltanto di una di tali regole, rendeva il testamento iniustum, e quindi nullo ab origine.  Come accennato sopra, verso la fine dell"età repubblicana, si sviluppò un nuovo istituto, la querela inofficiosi testamenti, da salutare non come limite alla libertà formale di testare, bensì come garanzia sostanziale degli interessi dei più stretti congiunti. Ad essi il testatore doveva lasciare una parte dei suoi averi in adempienza dell"officium pietatis che il vincolo parentale gli imponeva: qualora non avrebbe rispettato questa regola, il testamentum sarebbe stato inofficiosum e perciò rescindibile. La querela inofficiosi testamenti (per l"Arangio-Ruiz probabilmente nata ad imitazione dell"actio furoris greca) in origine si fondava sulla follia mentale del testatore, per essere poi astratta da siffatto fondamento e trovare giustificazione nel carattere di inofficiosità del testamento (VOCI). All"inizio, la querela era attribuita al legittimario privato della portio debita non al fine di fargliela ottenere, poiché oggetto dell"accertamento dell"inofficitas testamenti era la sua rescissione totale e non la integrazione della legittima (ARANGIO-RUIZ). Si apriva così la successione ab intestato con attribuzione di beni al legittimario fino a concorrenza dell"intero diritto ab intestato. In età imperiale (I sec. d.C.) l"ammontare della portio hereditatis, la legittima, era fissata in un quarto, sull"esempio della lex Falcidia, la quale aveva indicato appunto in un quarto la pars bonorum hereditatis che non poteva essere assorbita da legati. In epoca successiva, precisamente nel periodo giustinianeo, sarebbe stata introdotta l"actio ad implementum legitimam, la quale attribuiva al legittimario un diritto di credito (ad incrementare la sua quota) nei confronti degli eredi testamentari; ciò anche al fine di limitare l"effetto della dichiarazione di inofficiosità del testamento.

Ma in tutto ciò, la diseredazione, precisamente, come funzionava? Nel ius civile, ma anche nel sistema pretorio, la categoria interessata, i sui, andava distinta rispetto al sesso e rispetto alla immediata o mediata discendenza, variando le regole per i figli (sui heredes veri e propri), per le figlie e i nipoti d"ambo i sessi (ceteri sui iam nati), e per i discendenti sopravvenuti (i postumi sui e alieni). Seguendo ciò che ci riporta anche Ulpiano, ossia il principio già menzionato per il quale "Sui heredes instituendi sunt vel exheredandi", la diseredazione doveva essere contenuta nel testamentum, non poteva essere implicita realizzando così una praeteritio, anzi doveva come la institutio essere espressa, nominatim, nonché in forma sacramentale (ad esempio, Titius filius meus exheres esto, o, qualora non vi fosse possibilità di equivoci, filius meus exheres esto); doveva seguire immediatamente la institutio. Ovviamente, tale ultima prescrizione di dovere e di decoro, presente nel ius civile, non deve essere letta anacronisticamente con gli occhiali delle lezioni giurisprudenziali di certe pronunce della nostra Cassazione, le quali ritenevano doversi affiancare alla clausola destitutiva un"altra di natura istitutiva, per rientrare nella tipicità prevista dalla dogmatica instauratasi in passato intorno alla interpretatio degli artt. 587-588 del codice civile italiano vigente.

Al rigorismo diseredativo-istitutivo del diritto ereditario romano qui in analisi, Traiano spezzò un"ala con l"ammettere che si potesse iniziare il testamento con l"exheredatio se nominatim, e poi via via si andarono introducendo altri sollievi al rigorismo formalistico, ma rimase sempre d"obbligo l"uso del termine "exheres", la cui etimologia nell"indicare il togliere un bene, una res, sta oggettivamente a significare, a parer di chi scrive, la deflagrazione solenne della privazione reale. La diseredazione, quindi, totalitaria (giacché obbligata a contemplare l"esclusione da tutto il patrimonio) e solenne, se fatta per più gradi ha sempre come diretta fons la volontà del testatore; come abbiamo visto l"esclusione espressa de qua non dev"essere sottoposta a condizioni casuali (eccetto la condizione potestativa), neppure alla condizione che l"estraneo accetti l"eredità o se riferita alla morte del suus. Addirittura (si veda qui il rigore della forma e insieme dell"ethos romano) per i Sabiniani, il cui parere dovette affermarsi, la praeteritio del figlio premorto invalidava il testamento. In mancanza di uno dei requisiti indicati, l"exheredatio era irrituale e rendeva iniustum, nullo il testamento, con la conseguenza che si apriva la successione ab intestato. Un minore rigore formale, invece, caratterizzava l"exheredatio dei ceteri sui iam nati: essa poteva realizzarsi con una formula globale (ceteri omnes exheredes sunto); inoltre la preterizione dei ceteri sui, figlie e nipoti, non invalidava il testamento. Per quanto riguarda i postumi, inizialmente non era possibile diseredarli o istituirli, in quanto incertae personae: prevaleva infatti la regola secondo cui postumi vel postumae agnatione rumpitur testamentum. Al fine di ovviare a questo inconveniente, la giurisprudenza e la legislazione stessa incominciarono ad escogitare vari rimedi che consentissero di contemplare nel testamento tutte le possibili sopravvenienze di discendenti. Quindi, furono presi in considerazione i casi di postumi rispetto al testatore, o al momento di confezione del testamento, postumi immediati e mediati (figli di figli), postumi non naturali venuti a far parte del nucleo familiare per adoptio, adrogatio, conventio in manum. Si diede così inizio a una stagione giuridica in cui si osservava la regola la quale prevedeva che  postumi  quoque  liberi nominatim  vel  heredes institui debent vel exheredari (quindi che i figli postumi si devono espressamente o istituire eredi o diseredare). L"exheredatio dei postumi doveva essere nominatim. Per le postume oltre che nominatim era permesso diseredare con la formula generica inter ceteros, purché in questo caso si disponesse a loro favore di qualche legato. In nessun caso si poteva diseredare in anticipo la persona successivamente adottata o adrogata o sposata cum manu, giacché in tali casi il testamentum sarebbe stato ruptum. Ugualmente ruptum sarebbe stato il testamento qualora si fosse divenuti sui per erroris causae probatio; ma un senatoconsulto del tempo di Adriano sancì la validità del testamento se la erroris causae probatio avesse avuto luogo dopo la morte del testatore.

La teorica diseredativa, negli ultimi decenni della Repubblica, sotto l"azione dell"editto pretorile, subì rilevanti modifiche per adeguare la exheredatio ad una più efficiente protezione dei discendenti naturali del testatore. A tutte le categorie di discendenti non ritualmente exheredati, il pretore accorda la bonorum possessio contra tabulas (ma della bonorum possessio contra tabulas, si sostiene, potevano avvalersi anche i figli regolarmente istituiti), sempre che sia richiesta entro il termine di un anno. Così il figlio passato sotto silenzio poteva privare dei beni ereditari gli eredi istituiti. Ma si fece di più: alle suae praeteritae e ai ceteri sui praeteriti si concedeva la quota di successione legittima in bonorum possessione contra tabulas, in concorso con gli extranei, non nella sola metà del patrimonio, bensì nell"intero. Tutte misure volte ad un sostanziale protezionismo della discendenza naturale del testatore. A ritoccare questo indirizzo fu un rescritto dell"imperatore Antonino Pio, il quale ridusse per le donne la bonorum possessio alla quota loro spettante in forza del ius civile. Chi legge potrebbe domandarsi, lecitamente, come mai una praeteritio non sfociasse nella nullità del testamento. Ora, la conseguenza della praeteritio, dato il carattere equitativo delle norme pretorie, non era mai la filosabiniana nullità assoluta, radicale dell"atto testamentario, ma solo quella relativa, giacché restavano valide le disposizioni di diseredazione, le manomissioni, le istituzioni di legati, ecc.

Grande importanza ha nella comprensione della evoluzione del sistema successorio romano, ma anche della exheredatio, la Novella 115 che Giustiniano introdusse nel 542 d.C.  La portio legitima che avevamo visto ammontare a un quarto sull"esempio della lex Falcidia, fu aumentata in età giustinianea a un terzo se i discendenti fossero quattro o meno, e alla metà se i discendenti fossero più di quattro. La diseredazione fu limitata, e non abolita, alla sola exheredatio bona mente o per indegnità del successibile (ARANGIO-RUIZ). Appare perciò più corretto parlare di un diritto a non essere ingiustamente diseredati (BRUGI). Secondo l"Arangio-Ruiz, comunque, non può ritenersi valida l"affermazione per cui Giustiniano avrebbe creato un sistema di successione necessaria materiale, o meglio, di una successione necessaria collegata alla legittima quale oggi è conosciuta.

Invero, Giustiniano, proseguendo l"indirizzo pretorio, compì un"opera di semplificazione della teorica della exheredatio. Impose che la validità di essa fosse condizionata ad una esclusione espressa dall"eredità, nominatim, tanto per gli uomini quanto per le donne; previde che tutti i discendenti naturali dovessero essere contemplati nel testamento, e che, di conseguenza, la praeteritio fosse sempre causa di nullità del testamentum. A dire di Filippo Cancelli, invece, sembra che il grande imperatore delle riforme, con la Novella 115, abbia compiuto una vera e propria abolizione della exheredatio, permettendola solo in gravissimi casi, tassativamente elencati, di indegnità dei successibili, ascendenti e discendenti. È proprio vero, anche di fronte a questo caso di discrasia tra opinioni critico-interpretative degli studiosi (Arangio-Ruiz vs Cancelli), il dir di Dante, che scrisse "Cesare fui e son Iustiniano, / che, per voler del primo amor ch"i" sento, / d"entro le leggi trassi il troppo e "l vano." (Dante Alighieri, Divina Commedia – Paradiso, Canto VI, 10-12).

La Novella 115, ammettendo la diseredazione solo nei casi espressamente previsti, e precisamente nelle quattordici ipotesi attinenti ai sui e nelle otto relative agli ascendenti, prevedeva l"onere per il testatore di indicare espressamente quale tra queste fosse la causa sulla quale la diseredazione era fondata. Con tale Novella ci si avvicina molto a quello che oggi è l"istituto della indegnità a succedere. La differenza tra l"indegnità e la diseredazione resta, però, incolmabile sotto il profilo degli effetti, dato che l"indegno può acquisire l"eredità ma non può trattenerla, mentre la diseredazione, anche quella giustinianea, incide sulla vocazione stessa. Il diseredato è, quindi, funditus incapace a succedere (GERBO).

Scorrendo le pagine della storia della diseredazione, si osserva come le legislazioni continentali precedenti alla Rivoluzione francese connettano la diseredazione alla indegnità; e ciò avviene sulla base della tradizione giustinianea.

Nel considerare le fonti da cui attingere la conoscenza del nostro diritto medievale, poi, i giuristi storici ritengono che la diseredazione fosse istituto comune e diffuso sia tra i Longobardi che presso la popolazione romana. Malgrado, come lo stesso Tacito ci insegna, il testamento fosse sconosciuto alle prime popolazioni germaniche, nella cernita delle probabilità più attendibili, non deve scartarsi quella secondo la quale detti popoli abbiano attenuato tale mancanza nel tempo, in seguito alle invasioni nell"occidente romano e successivamente allo stabilirsi di rapporti di convivenza con le popolazioni romane, o nella vicinanza alle schiere militari bizantine.

L"Editto di Teodorico (Edictum Theodorici regis, chiamato anche Lex Romana Ostrogothorum), databile tra il 493 e il 526, aveva sicuramente ammesso i "barbari" che militassero per la Repubblica, a fare testamento, sia in servizio sia nelle loro dimore. Secondo l"Editto di Rotari, la prima raccolta scritta di leggi dei Longobardi, promulgato nel 643 da re Rotari, i sudditi di sua maestà potevano disporre dei loro beni mediante una thinx (quod est donatio) che, se munita della clausola lid in laib, costituiva una disposizione mortis causa (A. MARONGIU).

In realtà, in queste disposizioni edittali, mancavano le parole corrispondenti a "testamento", "eredità", o "erede", ma si trattava di una mera deficienza terminologica, non concettuale (LEICHT, il quale affermava che fosse evidente ai Longobardi che tale "thingatio" arrivasse all"effetto di creare degli eredi legittimi e che nella mente del popolo de quo si fosse formato un parallelismo fra la loro thinx e gl"istituti ereditari).

In alcune disposizioni dell"Editto di Rotari si parlava chiaramente di exheredatio, sia del padre nei confronti dei figli, sia dei figli nei confronti del padre (A. MARONGIU). Piccola curiosità rispetto a tale ultimo rilievo nell"attuale assetto normativo italiano: la disposizione normativa dell"ultimo periodo dell"unico comma dell"art. 448-bis c.c., come novellato ex art. 1, comma 9, legge n. 219/2012, prevede la possibilità, quindi la facoltà, di escludere dalla propria successione il genitore che sia decaduto dalla responsabilità genitoriale per comportamenti gravi tenuti nei confronti del figlio, ovviamente per fatti che non integrino i casi di indegnità. Siffatta esclusione era ammessa soltanto ove fondata su una iusta causa aut culpa: richiamandosi direttamente alle Novelle giustinianee, si ravvisa in tale causa aut culpa una ingratitudo, la cui sussistenza doveva (in caso di contestazione) essere provata da colui al quale erano stati lasciati i beni. Questi casi di ingratitudo, specificati solo per la diseredazione di un figlio, consistevano nel tentativo o istigazione di provocare la morte del genitore, nelle lesioni volontarie, o nell"aver voluto peccare e peccato con la matrigna. Con similari sembianze l"istituto si trovava in varie altre leggi, cosiddette barbariche, precedenti. Liutprando (re dei Longobardi e re d"Italia dal 712 al 744) per esempio, dà al padre, e persino al fratello della donna che abbia agito contro il volere di essi, il potere di escluderla dalla successione; veglia qui l"alone sostanziale, ma non la forma tipica della diseredazione vera e propria.

Nelle fonti tardo-romane del Medioevo, quindi le fonti post-giustinianee, si seguono in modo diretto le disposizioni presenti nella famosa Novella 115, ripetendo e ritoccando, non senza qualche caduta di stile propria di chi impugna lo scalpello da epigono restauratore, l"elenco delle quattordici fattispecie di ingratitudine giustificanti la diseredazione del figlio da parte del padre, e le otto altre fattispecie per la diseredazione del padre da parte del figlio. Diversi testi giuridici alto-medievali, tra cui l"Epitome Juliani, la Lex romana canonice compta, il Liber legum, le Exceptiones Petri, hanno trasferito l"elencazione giustinianea anche nella letteratura canonistica, nei formulari, esempi e testi propri dell"ars notaria, e altrove. Andavano "di moda" anche varie serie più o meno corrette di versetti mnemonici, che entrarono a far parte persino della cultura notarile più impegnata, come dimostra la loro presenza nella Summa artis notariae di Rolandino Passeggeri. Tra le cause di diseredazione riassunte dal Passeggeri vi rientrano anche casi strettamente inerenti alla moralità del tempo.

Nell"esperienza dottrinaria del periodo degli statuti e del ius commune, con il diritto statutario e la dominanza delle consuetudini nonché dei diritti particolari, mancava un indirizzo ben preciso e unitario, e si assistette al conseguente realizzarsi di un monadismo giuridico che ancora fa della sua frammentarietà localistica, il proprio fascino per gli studiosi della storia del diritto.

Vi erano, inoltre, statuti che ammettevano chiaramente la diseredazione, come quello di Messina, e statuti che, tacendo al riguardo, sembravano richiamarsi al diritto romano, come faceva lo statuto di Veglia, il quale parlava dell"istituto de quo come per caso, attraverso la definizione del testamento quale voluntatis nostrae iusta sententia, definizione funzionale alla spiegazione che la volontà del testatore, per avere efficacia, doveva essere giusta: qualora non fosse stato così, ossia se qualcuno avesse preteso di diseredare il proprio figlio o la propria figlia in mancanza di una legitima causa, tale volere non sarebbe stato valido.

In altri contesti, come nello statuto della Repubblica di Sassari del 1316, le cause di diseredazione venivano assorbite in cause di indegnità a succedere; lo statuto ferrarese del 1287 comminava una exheredatio (che si risolveva in una incapacità a succedere per legge e per testamento) ai bestemmiatori, ai contravventori delle norme papali o imperiali contro l"eresia; si trattava, in verità, di una inserzione nel corpo statutario della bolla pontificia di Innocenzo IV, esecutiva della costituzione dell"imperatore Federico II. Piuttosto docile era, tuttavia, la forza dell"istituto diseredativo di fronte alla riserva ai figli di una quota di legittima, chiamata spesso "falcidia". In questo periodo storico, qui e là vediamo affermarsi l"idea per la quale nel concetto di diseredazione rientra anche la mera omissione o preterizione del successibile, in mancanza di una specifica disposizione che lo riguardi: idea confusa e non corretta sul piano di diritto puro, inteso quest"ultimo kelsenianamente come schema di qualificazione degli atti della natura; metro qualificante che, a parere di chi scrive, procede come un pendolo che, volendo rompere la routine della ordinaria, kantiana tensione bipolare, non riconosce più i due poli, della ideologia, della morale da un lato, e della realistica empirìa della politica dall"altro, e oscilla alla ricerca di un tertium campus scevro, non macchiato, puro.

Conformemente alla cultura dell"epoca, avente i propri antesignani sociologici e giuridici nella tradizione della patria potestà romana, e nell"antica tradizione longobarda per la quale padri e fratelli potevano prescrivere alle figlie o alle sorelle le strade da percorrere per essere in rettitudine, s"era sviluppata una moraleggiante sensibilità attenta alle azioni irriguardose dei figli, e un certo assetto sociale in cui la predominanza era nettamente nelle mani del maschio. Alcuni tratti di questa mentalità sopravvivranno per poi confluire nella legislazione sabauda dello statuto di Vittorio Amedeo III, del 1782. In questa legislazione quasi di fine "700, infatti, era prevista la diseredazione per il figlio o la figlia che contraesse un matrimonio disonorevole (termine da interpretare iniettandosi nella vischiosa ristrettezza di vedute di allora, in materia matrimoniale), o comunque sconveniente alla famiglia e parentela; salvo espressa disposizione degli ascendenti, contraria a ciò.

Inoltre gli interpreti traggono, dalle disposizioni statutarie, il dato normativo secondo il quale le figlie dotate, in concorso con i loro fratelli, dovessero essere escluse dalla successione; e ancora, il rilievo per cui il testamento dei genitori in favore dei figli maschi dovesse essere considerato valido anche se privo di una formale diseredazione delle figlie femmine (A. MARONGIU).

La dottrina più autorevole del tempo voleva che, solennemente dichiarata secondo le sue forme, la diseredazione, contemplasse comunque la presenza di una delle quattordici causae legitimae della Novella 115, richiedendo così un lavoro di deduzione, e di sussunzione del dato storico della vita reale nel dato normativo delle fattispecie tassativamente enunciate nella Novella giustinianea. Dalla stessa scuola dottrinaria apprendiamo come venissero trattati egualmente gli atti mortis causa del padre e della madre, e così pure la loro diseredazione. Qualora vi fossero contestazioni circa la fondatezza del motivo della diseredazione, sarebbe gravato in capo all"erede beneficiato l"onere della dimostrazione della fondatezza.

L"attaccamento alla vecchia diseredazione, a questa creatura (meravigliosa o meno a seconda delle sensibilità filosofiche e delle convinzioni di ognuno), figlia, al di là di tutto, di una certa "libertà di testare",  si pensa sia rimasto vivo fino alle metà del XVI secolo. Nelle correnti illuministe moderate di fine "700 constatiamo che qualora la diseredazione fosse dichiarata ingiusta il testamento decadeva, ma, più in generale, che il nuovo modello di testamento era valido anche se "secolarizzato" oltre i dogmi dell"aut instituere aut exheredare, quindi anche se non istituiva eredi o diseredi.

L"evoluzione della exheredatio dal diritto giustinianeo ad oggi è contrassegnata dall"assorbimento delle giuste cause in ipotesi di indegnità a succedere. I casi, insomma, che potevano giustificare la diseredazione divengono ipotesi in cui la esclusione dall"eredità opera ipso iure. Proprio come una sorta di "diseredazione legale" (D. RUSSO).

Le legislazioni settecentesche precedenti alla Rivoluzione francese continuano a fondere la diseredazione vera e propria con quelle sfumature giuridiche, che abbiamo visto in età medievale, volte a considerare l"incapacità a succedere per ingratitudine o per indegnità. Indici della mentalità del tempo, sono alcuni esempi normativi francesi, come un"ordinanza regia del 1557 che permetteva ai genitori di diseredare quelli tra i loro figli che si fossero sposati senza il loro gradimento, e, un"altra ordonnance del 1639, dichiarativa della indegnità dei figli ribelli a succedere ai propri genitori. La Rivoluzione francese, culla antifeudalistica dei principi liberali e illuministi, fu a dir di grandi studiosi, ostile alla diseredazione, evidentemente per l"ufficiale perpetrarsi di legali aberrazioni che questa realizzava, spesso mirando a colpire false ingiustizie che, semplicemente, erano atteggiamenti, i quali oggi apparirebbero al contemporaneo frutto dell"esplicazione della ordinaria e irrinunciabile libertà individuale (in materia matrimoniale dei figli "ribelli" per esempio). Un"ottica neo-illuminista transnazionale, ai giorni nostri, in virtù del principio della libera e cosciente autodeterminazione del soggetto giuridico, della persona (data l"ispirazione personologico-democratica del nostro sistema di pensiero in generale e di pensare le successioni ereditarie in particolare), vorrebbe il normativo riconoscimento sostanziale, "radicale" della libertà di testare, attraverso cui salutare la fine di ogni restrizione alla libertas exheredandi, essendo questa in un rapporto di species a genus rispetto alla libertà testamentaria stessa.

Il codice civile napoleonico non si spinse al di là della incapacità a succedere per cause di indegnità. Il codice civile italiano del 1865 (ove non veniva positivizzata la diseredazione) disciplinava l"indegnità a succedere agli artt. 725 e ss., definendola quale incapacità a succedere; il Code napoleonico all"art. 727 parlava di esclusione ("Sono indegni di succedere, e come tali esclusi dalla successione: colui che fosse stato condannato per aver ucciso o tentato di uccidere il de cujus; colui che avesse promosso contro il defunto un"accusa di delitto capitale giudicata calunniosa; l"erede in età maggiore che, informato dell"omicidio, non l"avrà denunciato alla giustizia"). Nell"iniziarci all"osservazione del Code francese dell"alba ottocentesca, pur restando coscienti dei sostantivi appena citati, ossia "indegni", "esclusi", ma non "incapaci", si è fatto comunque riferimento al concetto giuridico di incapacità a succedere, attraversando così quelle colonne d"Ercole terminologiche oltre le quali il legislatore de quo non volle sporgersi, poiché in Francia dimoravano energiche spinte volte ad accomunare i due concetti di esclusione (per indegnità, e per incapacità a succedere). Secondo il parere di Laurent, autore francese ottocentesco, l"unica differenza tra essi consisterebbe nel fatto che mentre le cause di incapacità sono indipendenti dalla volontà dell"erede, e quindi a parer di chi scrive, in linea di massima casuali, le cause di indegnità si radicano in un dovere inadempiuto dell"erede nei confronti del de cujus; di conseguenza Laurent affermava l"operatività ipso iure dell"indegnità a succedere, al pari della incapacità. Ciò non ha una rilevanza meramente appiattita sul piano teorico o della "doxa", bensì trova riscontri eminenti nell"universo della stessa "praxis", dato che, seguendo questo filone di idee, non occorrerebbe una pronuncia costitutiva del giudice per dichiarare l"indegnità del soggetto indegno, il quale, così, finirebbe per non assumere proprio la qualità di erede, e, conseguenza più estrema, non occorrerebbe neanche una previa pronuncia giudiziale di natura costitutiva per sottrargli i beni. Una siffatta teorica ha finito per condizionare la dottrina e la stessa giurisprudenza francesi dei giorni nostri, cosicché gli effetti della indegnità non sono dipendenti dalla pronuncia giudiziale, ciò in contrasto con la concezione italiana del nostro attuale art. 463 c.c., che letteralmente ("È escluso dalla successione come indegno …") sembra ispirato alla tradizione romanistica per cui l"indegnità consegue ad una pronuncia, di carattere costitutivo, del giudice, secondo il principio indignus potest capere sed non retinere.

C"è, poi, chi (D. RUSSO) vede nella successione necessaria del Code Napoleon del 1804 una fusione tra l"istituto romanistico della portio legitima e la réserve coutumière, riflettendo inoltre su come tale sistema sia stato, con le opportune modificazioni, adattato dal codice civile italiano del 1865.

Il sistema della réserve si differenzia molto dall"istituto romanistico, in quanto frutto di una concezione successoria, quella del diritto consuetudinario francese, distante dall"universo del diritto romano. Caratteristica propria degli usi francesi era il principio della comproprietà familiare (presente in formati differenti nel diritto italico arcaico, nonché nelle popolazioni proto-germaniche e russe agrofile). Conseguenza estrema di una tale comunanza all"insegna del legame di sangue, era il principio nullum testamentum apud germanos, nonché la regola solus Deus, non homo, heredem facere potest. Fu ammesso, però, che il testatore potesse disporre di una quota minima, e si definì la restante quota, più ingente e indisponibile, réserve. La differenza con la successione necessaria romana era che questa determinava direttamente la quota di legittima, mentre il diritto consuetudinario determinava direttamente la quota disponibile. Lasciandosi guidare dai lineamenti della concezione familiaristica francese e dall"officium pietatis che il pater doveva avere verso i propri cari, i  due istituti de quibus erano, peraltro, illuminati da diversi intenti e funzioni: assicurare la conservazione del patrimonio familiare la réserve, assicurare un sostentamento ai congiunti più prossimi la pars legitima. La legitima era inoltre giuridicamente qualificata come pars bonorum, dovendo coesistere legittimamente col principio nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, invece la réserve come pars hereditatis spettante agli hèrithiers du sang (D. RUSSO).

Forse, grazie all"influenza del diritto consuetudinario francese, cadeva il principio del divieto del concorso tra successione ex lege e successione ex testamento; ed era pacifico che la riserva di legittima fosse quota di eredità, potendo così concorrere con una disposizione testamentaria di tipo istitutivo. Si respirava una rinnovata aria, una brezza di liberalismo della forma, che faceva sciogliere la formalistica necessità della exheredatio, quale vincolante presupposto di legittimazione per il testatore di disporre a favore di non appartenenti alla sua cerchia familiare, e quindi in tali casi come condizione di validità del testamento. Ciò potrebbe giustificare l"abbandono da parte del nostro codice del 1865 (e dall"attuale codice del 1942) del termine "diseredazione", forse troppo riecheggiante funzioni della vecchia exheredatio, troppo diverse e troppo anacronistiche? Sarebbe stato meglio manifestare la possibilità di una facoltà ablativo-testamentaria, denominando con un altro nome l"istituto che oggigiorno chiamiamo "diseredazione"? Sono, quindi, questi due termini (exheredatio e diseredazione) come quelle sorellastre che poco si sopportano per colpa di tutti coloro che scrutano uguaglianze le quali in realtà non esistono?

Dopo aver salutato da esule le esperienze giuridico-positive che, appunto, lo hanno emarginato, l"istituto diseredativo riappare nei codici del periodo della Restaurazione, ad esempio nel codice civile austriaco, in quello del Regno delle Due Sicilie, in quello albertino (artt. 737-740). Eppure un siffatto ritorno in corsia della diseredazione nel post-Illuminismo, ove regnavano orientamenti filosofici idealistici, proprio quando sulle acque ristagnate del reflusso rivoluzionario degenerato galleggiavano le carcasse delle illusioni progressiste, potrebbe apparirci inaspettato quest"avvento dalla porta d"ingresso del diritto civile positivo (il codice!), tra l"altro in piena èra codificatoria. Ma, appena il tempo di deviare la nostra appercettiva introspezione intellettuale (non specularmente fine a se stessa, bensì con dati storici e di politica del diritto alla mano, ovviamente!), dal versante dello stupore al più complesso versante di ricerca della ratio viscerale della mens legis, ed ecco che appare alla coscienza il monito che dovrebbe accompagnare sempre lo spessore del bagaglio storico del giurista, nella maturazione della sua consapevolezza, ossia l"invito baconiano (in verità, ab origine, del filosofo francese Bernardo di Chartres) a star sì, da "nani", "sulle spalle dei giganti", ma di ricordarci pure che siamo uomini-figli del nostro tempo, spesso, quindi, prodotto e antiprodotto delle contingenze dell"hic e del nunc, e che, come rileva la lezione marxiana-engelsiana di ispirazione empiristica e materialistica, "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza". Perciò, dato che nel nostro odierno tempo lo studioso del diritto positivo italiano potrebbe facilmente essere tentato dall"avvertire l"esigenza (più o meno impellente, a seconda della sensibilità soggettiva) di un parto normativo che regolamenti stabilmente la materia delle prerogative e degli eventuali limiti in materia di libertà diseredativa, potrebbe tendere anacronisticamente a salutare la riepifania dell"istituto de quo, nel periodo della Restaurazione, come una nota intonata più col progresso che con le cacofonie della conservatrice reazione alla rivoluzione della liberté-égalité-fraternité. Ragion per cui, guardando invece alla storia complessiva della diseredazione, e con metro quanto più lucido e oggettivo possibile, potremmo presto accorgerci di come sia una mossa tipica della tradizione, quella della resurrezione diseredativa, o, se volessimo abbinare tale ricomparsa a certo spirito dell"epoca che ora stiamo considerando, potremmo scrutare proprio qualche sintonia con la coordinata d"ordine della corrente meno estrema del periodo del Congresso di Vienna, ossia il motto "conservare progredendo".

Come una luce a intermittenza di un"automobile sostata sul ciglio di una strada, tra il triangolo rosso del pericolo e il cartello indicante i lavori in corso, il quale lascia presagire la scomodità di un terreno instabile e in mutazione, la diseredazione appare e scompare nel tempo, dal diritto positivo; a dirigere il traffico forense spesso sono le pronunce di una giurisprudenza che troppo spesso fa da vigilante del flusso, districandosi tra le diverse scuole di pensiero a riguardo. È consigliata, quindi, come nella situazione descritta in similitudine, una accurata cautela, nel dispensare giudizi in termini di corsi e ricorsi storici in materia.

Ritornando sui passi della macronarrazione periodo per periodo sulla clausola di diseredazione, salta alla mente il codice albertino, in vigore dal 1838, il primo codice civile della penisola italiana (ancora non unificata), il quale consentiva addirittura al testatore di diseredare i legittimari, garantendo comunque ad essi gli alimenti. Per "diseredare", senza la necessità di formalismi dichiarativi o giustificativi, bastava la semplice omissione o preterizione: ma ciò in una considerazione analitica che presta maggiore attenzione alla "ousia" di ogni diversa sfumatura effettuale, risulta essere un errore di valutazione, giacché, la preterizione a parere di chi scrive, comporta un silenzio meta-diseredativo, che diseredazione, invero, non è.

Contrario, o meglio, ostile al mantenimento dell"istituto ablativo-destitutivo è stato, invece, il legislatore italiano del codice Pisanelli, del 1865. Nella relazione ministeriale del Guardasigilli Giuseppe Pisanelli, si spiegava la proposta esclusione della diseredazione sia con l"assorbimento di questa nelle cause di indegnità (confondendo evidentemente la matrice tutta e solo privata della volizione negoziale destitutiva con il fondamento pubblicistico della indegnità), conciliandosi alquanto freddamente con la sostanza del Code francese, sia per ragioni di moralità pubblica, giacché affermava che la diseredazione supponesse sentimenti evitabili e, anzi, da evitare ("Suppone che nell"ultimo atto della vita civile, nell"ora solenne dei moribondi, un padre possa, per sentimento di vendetta, proclamare il disonore della prole, dichiarando sconoscente il figlio, o deturpando il nome della figlia. La supposizione è immorale. Come può mai conciliarsi colla dottrina del perdono? Se la legge ne avesse il potere, dovrebbe, per onore dell"umanità, cancellare la parola del testatore …"). Il testo del progetto, malgrado il vivido svolgimento della discussione parlamentare, ebbe esito fausto, e la diseredazione non fu ammessa nel codice, tracciando la strada per la seconda rilevante esclusione, quella del codice civile del "42.

Dopo una relativamente breve, ma si spera accurata, disamina trattativa dell"evoluzione storica dell"istituto giuridico in considerazione in questo lavoro, avendo delineato, evidenziato, e in qualche cenno criticato i punti di continuità, le battute d"arresto e le contraddizioni del suo percorso in lungo e in largo nel tempo, riaffiora l"interrogativo volto a dare un volto, o comunque un grado di densità, al feeling intercorrente tra "exheredatio" e "diseredazione" odierna, ossia quella vivisezionata e affermata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 8352 del 2012. Si tratta di un rapporto di omonimia o si tratta di continuità tra i due istituti (D. RUSSO)? Sicuramente risultano essere alquanto lontani tra loro: qualora venisse meno il testamento per la mancata adizione (atto con cui l"erede dichiara expressis verbis o per facta concludentia di voler acquisire l"eredità) dell"heres istituito, veniva meno anche l"exheredatio e il figlio succedeva ab intestato (BURDESE). La funzione attribuita ad ognuno dei due istituti risulta profondamente radicata nell"intimo delle strutturazioni e sovrastrutturazioni socioculturali in cui venivano e vengono posti in essere (come scrisse Ferri, "I Romani non conoscevano una diseredazione fine a se stessa"). Semmai, votati erano entrambi gli istituti, ad elevare a rango di "fonte di legge" (un po" come nel nostro codice civile vigente il contratto lecito, atto così privato, che ha forza di legge tra le parti), il volere ultimo di colui che, cosciente della inevitabile caducità della condizione esistenziale a cui appartiene, si accinge a disporre – da intendersi in senso ampio – dei propri beni, per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Volendo comunque non sottacere i punti che per certa scuola di pensiero fanno dell"institutum romanistico l"antesignano dell"istituto odierno, a parer di chi scrive, semmai, la diseredazione sarebbe da intendere non in rapporto di continuità, bensì, come effetto crepuscolare dell"istituto romanistico della ormai tramontata (per forma e funzione) exheredatio.

Dovrebbe riservare un certo fascino, al giusprivatista, rilevare tecnicamente lo scopo differenziato della exheredatio, così vincolata e impegnata a ricoprire la qualifica di legittimazione e patente di una proto-libertà testamentaria, libertà oggi invece intesa, nel nostro background filosofico-giuridico continentale, quale neoliberale facultas iuris. Nel continuo svilupparsi di questo common frame valoriale in tema di facoltà testamentarie, ove il testamento dovrebbe divenire, o magari ritornare ad essere, nei limiti del lecito, dell"umano, e della funzione sociale cui è orientata la legge, il regno delle volontà del testatore (il quale, comunque, diseredando certamente non smette d"essere anche padre, o marito, o figlio), appare opportuno qui ed oggi, nel nostro stivale peninsulare unificato che prende parte al disegno giuridico europeo, un augurio. L"augurio che, stracciando le ormai logore e tarde vesti dell"inertia iuris, si compia la (ri)scoperta positiva dell"istituto de quo. Anche se per realizzare questa rigenerata politica del diritto capace di guardare in faccia la problematicità della realtà, dovesse occorrere perseveranza scientifica, e compiere, d"intelletto, attraverso calibrate proposte di riforma, un assalto argomentativo alla torre eburnea che, dopo la recente sentenza di legittimità n. 8352 del 25 maggio 2012 (di ammissibilità di una clausola meramente diseredativa contenuta in un testamento olografo rivolto a soggetti non legittimari), sta sempre più diventando una bastiglia ove tener relegata la diseredazione al suo attuale destino di  trepida certezza,  più indicato  per  la  sola  teoria,  molto  meno  per   la  "manovalanza" della pratica (destinazione ultima, in fin dei conti, della stessa scientia).




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