-  Redazione P&D  -  24/12/2014

IL DANNO DA ATTIVITÀ SOVRANA – Luigi TRISOLINO

 

-Il risarcimento del danno da attività sovrana

-La responsabilità dei magistrati nella Legge n. 117/1988

-I fondamenti normativi e scientifici della responsabilità dei poteri dello Stato

 

Seguendo una concezione giuspubblicistica di matrice alquanto tradizionale, volta al riconoscimento e all"accentuazione del potere statuale quale potere (non solo tendenzialmente bensì pienamente) assoluto, si perverrebbe al tentativo di sostenere che la problematica della risarcibilità-riparabilità dei danni ingiusti riguarda unicamente il mondo dei privati, o comunque degli enti, magari pure pubblici, non esercenti funzioni istituzionali di tipo sovrano.

Una siffatta concezione, con l"accentuarsi dell"orientamento costituzionalistico-personologico, il quale ultimo, invero, concepisce la sovranità nella conduzione della "res publica" quale alto potere statuale funzionale alla tutela nonché al benessere dei cittadini, "uti singuli" e nelle formazioni sociali ove si svolge e si realizza la loro personalità (art. 2 Cost.), non può che risultare anacronistico, anche e soprattutto a fronte di un"analisi complessiva e sistemica dell"ordinamento giuridico.

Alla "vexata quaestio" della ammissibilità o non ammissibilità di un"ottica risarcitoria e/o riparatoria ove legittimato passivo sia lo Stato, o un funzionario esercente un"attività rientrante nell"alveo della organica sovranità statuale (arg. ex art. 28 Cost.), l"assetto normativo, giurisprudenziale e dottrinale fornisce una risposta sicuramente positiva, entro i limiti delle delicate peculiarità dei settori in questione.

Un acuirsi della strumentazione risarcitoria in tal senso deve trovare, necessariamente, un adeguato svolgimento all"interno di un binario, e programmatico e precettivo, che sia idoneo a garantire una sana perpetuazione del principio di certezza del diritto, da un lato, e del principio di equilibrio tra poteri dello Stato, nonché di sereno rispetto del dovere di fedeltà alla Repubblica nella osservanza della Carta costituzionale e dei testi normativi (art. 54, comma 1, Cost.), dall"altro.

Le resistenze al progressivo affermarsi dell"ottica – e dell"etica – delle responsabilità, tuttavia oggi in decremento, provengono da panorami di pensiero volti a rintracciare una contraddizione tra la formula della sovranità (anche, ma non solo, nomo-poietica) e il concetto di ingiustizia del danno, le cui conseguenze in senso proprio, appunto, sarebbero i risvolti, consequenziali ed eventuali, a fronte dei quali apprestare le adeguate e proporzionate misure di protezione, ai fini di una ricomposizione riequilibrante dei rapporti tra la sfera giuridica del potere e quella del cittadino risultante leso.

Problematica dibattuta, poi, è pure quella della ascrivibilità, o meno, della formula risarcitoria per danno da funzione sovrana nell"entroterra concettuale e strutturale della responsabilità aquiliana ex artt. 2043 e 2059 c.c.; o in quello della responsabilità contrattuale, in tale ultimo caso, invero, attraverso una "fictio" sicuramente da scongiurare.

Al di là del controverso diluirsi di siffatti argomentazioni in disquisizioni filosofiche ove ogni scuola potrebbe attingere i propri assiomi presso disparati criteri liberamente determinati ed orientati, per restare ancorati al dato prettamente giuridico, con le connesse strumentazioni logiche, si potrebbe confutare la assunta tesi della contraddizione tra sovranità e danno ingiusto attraverso una considerazione, la cui "ratio" trova un sicuro equilibrio nella riflessione scientifica sulle fonti del diritto, oltre che nelle teleologie funzionali del bene comune. Se l"esercizio del potere che si riconosce come caratterizzato dal dato della sovranità non risulta conforme, oggettivamente, all"atto che quel medesimo potere conferisce e regolamenta sostanzialmente e proceduralmente, l"atto sovrano degrada in "hapax" discendente per riqualificarsi quale fatto giuridicamente rilevante. In quanto fatto, pur se originato dalla sfera giuridicamente riconosciuta come sovrana, sarebbe giudicabile quale ingiusto, e quindi come illecito, poiché posto in essere "contra ius", contrapposto, così, all"ordinamento nei suoi principi portanti, rintracciabili in un testo normativo costituzionale che, al di là delle dissertazioni kelseniane sul concetto di "Grundnorm", si pone al vertice della struttura gerarchica delle fonti del diritto. A corroborare la sussistenza e resistenza della siffatta gerarchia, invero, potrebbe assumersi la teoretica c.d. dei controlimiti, volta a porre comunque in testa al diritto europeo-comunitario e internazionale – penetranti e integranti il nostro ordinamento nazionale – i principi fondamentali della Costituzione italiana, in realtà e "de facto" affini ai principi del diritto umanitario internazionalistico.

Il legislatore, così, è tenuto a svolgere la sua attività sovrana, di rilievo costituzionale, entro i limiti stabiliti dalla Carta costituzionale (art. 1, comma 2, Cost.).

Nella classica tripartizione dei poteri dello Stato, di montesquieuiana memoria, si delineava la geografia funzionale dei poteri suddividendoli in legislativo, esecutivo e giurisdizionale.

Avendo delineato il fondamento logico-giuridico della configurabilità di un"attività lesiva ingiusta nell"entroterra della massima funzione sovrana nomo-poieticamente orientata (potere legislativo), si deve passare alla considerazione del potere esecutivo. La funzione corrispondente all"espressione "potere esecutivo", a rigore, deve essere concepita quale attività di indirizzo politico-amministrativo, quindi come attività di "governance" pubblicistica, diversa dalla pure pubblicistica attività di amministrazione in senso stretto, ossia di gestione amministrativa. Una tale ulteriore suddivisione, o per chi volesse restare più ancorato alla tradizionale classificazione trittica, un tale ulteriore discernimento all"interno della potestà giuspubblicistica, rinviene il proprio referente normativo, e quindi, in uno Stato di diritto positivo, il proprio fondamento nomo-ontologico, nella Carta costituzionale: gli articoli che trattano e regolamentano l"autorità e l"attività legislativa sono gli artt. 55-82; quelli concernenti il potere esecutivo in senso politico-governativo sono gli artt. 92-96, mentre quelli attinenti alla P.A. (di gestione, non politica) sono gli artt. 97-98; infine, a trattare del potere giudiziario attribuito alla magistratura sono gli artt. 101-113.

Molto delicato è l"equilibrio che investe la questione della configurabilità del danno ingiusto, e della conseguente necessità risarcitoria-riparatoria, nel peculiare profilo dell"attività giurisdizionale di applicazione delle norme.

L"alto grado di preparazione dei magistrati, accertato attraverso il criterio selettivo del concorso pubblico, a rigor di logica anzitutto, non può divenire una aprioristica garanzia della legittimità e della correttezza nella conduzione dell"attività giudiziaria, e giurisdizionale in particolare. Nel nostro ordinamento, perciò, il legislatore ha disposto una disciplina normativa "ad hoc": la L. n. 117/1988, sul risarcimento dei danni cagionati nell"esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati.

Il primo comma dell"art. 1 della suddetta legge chiarisce lo specifico ambito di applicazione della regolamentazione, disponendo che questa incide sulla attività degli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, le quali esercitano l"attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni (inquirente-requirente, giudicante), nonché agli estranei che partecipano all"esercizio della funzione giudiziaria.

Il cuore pulsante della disciplina in questione, invero, è rintracciabile nell"art. 2, il quale sancisce che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave, nell"esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia (dato il c.d. divieto di "non liquet" per il giudice, a cui peraltro è riferito il noto principio "iura novit curia"), può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali, i quali derivino da privazione della libertà personale.

A far da schermo all"azionabilità a oltranza che si paventava a fronte del riconoscimento della risarcibilità-riparabilità "de qua", tuttavia, interviene il limite circoscrittivo del secondo comma dell"art. 2 della L. n. 117/1988. Il comma anzidetto, infatti, esclude il configurarsi della responsabilità del magistrato nel momento (peculiare e consostanziale alla funzione giudiziaria stessa) della interpretazione di norme di diritto, e in quello della valutazione del fatto e delle prove.

Se si muove dalla concezione illuministica del giudice-automa e mera bocca della legge, sul quale grava il divieto di interpretazione, a fronte di un sistema normativo conformato ai criteri della chiarezza, precisione e univoca, scientifica pregnanza, in cui scialuppa di salvataggio di fronte alle lacune antinomiche del sistema diviene la sola logica strutturata sulle regole di risoluzione delle antinomie, incidenti rari nel prodotto legislativo, "nulla quaestio": "in claris non fit interpretatio". Tuttavia, se al termine "interpretazione", ormai secolarizzato e assoldato alla complessità concretatasi con l"evoluzione iper-articolata del sistema giuridico tutto, volessimo attribuire una valenza significativa di attività di comprensione delle parole presenti nel testo della disposizione, per ricavare dal greggio del testo la norma di regolazione dell"esistente, ogni giudice, nella sua attività di operatore del diritto, non può non compiere un lavoro tecnico di interpretazione.

Il terzo comma dell"art. 2, poi, riprende un punto cruciale del primo comma del medesimo articolo (il criterio, parametro di imputazione della "colpa grave"), per specificarlo tassativamente, affinché possano essere sussunte, nell"eremo della gravità della colpa, solo e soltanto alcune specifiche evenienze del divenire fenomenico posto in essere da un agente qualificato qual è il magistrato, nell"esercizio delle sue funzioni statuali. E così, infatti, costituiscono colpa grave la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile (punto a), l"affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento (punto b), la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento (punto c), l"emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione (punto d).

Sulla struttura dell"art. 185, cpv., c.p., l"art. 13 della L. n. 117/1988 sancisce la responsabilità civile per fatti costituenti reato, commessi dal magistrato nell"esercizio delle sue funzioni: la stessa norma speciale rimanda alle "norme ordinarie" (al codice penale, il quale, nel cpv. anzidetto, dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui).

Nell"affrontare il tema del danno ingiusto cagionato nell"esercizio delle funzioni sovrane, in particolare nell"alveo funzionale giudiziario nell"applicazione delle norme, si rilevi la sussistenza di altri pilastri fondanti la risarcibilità-riparabilità della lesione patita dalla persona: l"equa riparazione a fronte dell"accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (su cui si veda la Legge c.d. Pinto, ossia la L. n. 89/2001, più volte modificata), e la riparazione per ingiusta detenzione (su cui si veda l"art. 315 c.p.p.); entrambe attinenti alla sfera dei danni alla persona.

La giurisprudenza comunitaria ha espresso serie preoccupazioni e moniti sulla legislazione italiana attinente alla responsabilità civile dei magistrati, funzionari statali detentori del potere giudiziario, uno dei poteri sovrani, in particolare, il potere volto ad attuare il diritto nei casi specifici e concreti (dato il carattere generale e astratto delle leggi, leggi-provvedimento eccettuando).

A fronte della limitazione della risarcibilità del danno ingiusto (causato dal magistrato nell"esercizio delle funzioni giudiziarie) ai casi che non si concretizzino nell"attività di interpretazione delle norme di diritto, la Corte di Giustizia afferma che, poiché l"attività ermeneutica rientra nel fulcro essenziale del "labor judicis", e poiché non può escludersi che una violazione grave e manifesta delle norme comunitarie possa esser commessa nell"esercizio della ordinaria operazione giudiziaria di interpretazione, la privazione del cittadino del diritto di adire l"autorità competente per far accertare ed, eventualmente, affermare la responsabilità dello Stato, nella tipologia di casi anzidetti, comporterebbe una sottrazione del privato dalla sfera di protezione garantitagli da un "humus" di principi pretori sovranazionalcomunitari. Anzitutto nelle ipotesi in cui il giudice sia quello di ultima istanza, il quale ha il dovere di sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai fini di un migliore intendimento sistematico della normativa comunitaria medesima.

Tuttavia, a rigor del vero, i moniti specifici della giurisprudenza comunitaria riguardano unicamente i casi di violazione dei diritti attribuiti ai privati dalle norme dell"U.E.; l"effettività della tutela apprestata dal suddetto "humus" di principi si arresterebbe dinanzi alle situazioni in cui i privati assumessero di aver subito un danno per violazione del diritto interno (italiano). Si avrebbe uno stallo dell"efficacia del criterio di ragionevolezza, desumibile logicamente dall"art. 3 Cost., e quindi la c.d. discriminazione alla rovescia, a rimedio della quale si potrebbero equiparare, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata in virtù del principio di uguaglianza, le violazioni del diritto interno (soprattutto se inerenti al diritto alla libera circolazione) a quelle del diritto comunitario.

Al di là delle dialettiche dottrinali e giurisprudenziali, e dei ripensamenti normativi specifici in singoli settori, e quindi, in generale, al di là del "de jure condendo", può rilevarsi un progressivo incremento del dato giuridico nei confronti e a tutela delle posizioni sensibili dei singoli, avverso il peso della "auctoritas", sempre più mezzo fornito dalla persona per il benessere, appunto, della persona, e sempre meno fine, sempre meno prodotto del volgersi teleologico della cosa pubblica.




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