Deboli, svantaggiati  -  Paolo Cendon  -  02/05/2024

Suicidio e responsabilità

Mi ero subito accorto come alcuni tratti, tra quelli emersi studiando l’induzione alla follia, valessero anche rispetto a chi si “autoelimini”: indiscutibilità di punizioni in caso di malizia, tendenziale incidenza di un animus generico, ammissibilità del risarcimento in certi casi di colpa, sia pur grave.

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Scogli rispetto a una possibile condanna  non mancano, tecnicamente, sul piano civile, allorché si parli di suicido; nessuno tale però da risultare determinante.

 

Non la circostanza  che ci si trovi, a livello antropologico,  di fronte a una precisa “coscienza e volontà”  della vittima; elemento idoneo a spezzare, in teoria,   il “nesso eziologico” rispetto all’illecito iniziale.

 

Una responsabilità non potrà mancare, per principio, allorchè l’offesa a monte risulti greve, insidiosa più del consueto:  e il suicidio riguardi individui di spiccata labilità psicofisica,   non in grado  di sottrarsi  a voci arcane, sottili;    a richiami suggestivi dall’esterno.

 

Neppur lo è il fatto,  aggiungiamo, che l‘interessato sia ormai  defunto  al momento del processo.

Non sempre un morto, prima di tutto, ci sarà davvero; il progetto autodistruttivo può non andare in porto (quanti vogliono uccidersi davvero?),  toccherà allora  all’interessato  sopravvissuto     domandare,  in merito a quanto sia venuto riportando   di negativo, -  un risarcimento.

 

Nei casi di “suicidio riuscito” spetterà invece agli eredi agire in giudizio, per i riflessi che quella scomparsa cagioni loro;  voci lesive   che la circostanza di una morte tragica, unitamente al dato di un’addebitabilità “a  titolo di dolo”,  varrà a rendere   particolarmente intense   di  norma,  per qualità e quantità.

 




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